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29 Starlarèsc da Scimarmòta

Dislivello: 1099 m
Durata: 3 ore

«Gradite sorprese»

Il naturalista Mario Jäggli scrive ne «I paesaggi ticinesi», a proposito dell'alto Cantone, che «una delle più gradite sorprese che si offre a chi sale su questi monti è la vista dei piccoli laghetti alpestri. Sono molti, parecchi non hanno nome, ma ciascuno ha una propria nota di bellezza che di sé impronta il circostante paesaggio».

Le «gradite sorprese» sono costituite, in questa escursione, da tre laghetti, ognuno dei quali ha le sue caratteristiche e, soprattutto, la sua fascinosa disponibilità nei riguardi delle impressioni proposte da una presenza che è anche spettacolo.

Non sappiamo se Francesco Chiesa abbia visto almeno uno degli stessi prima di pubblicare sull'«Adula», nel 1918, a 47 anni, un testo che, intitolato «Lago alpino», parla di «luccicore terribile dell'acqua montana quest'oggi, sotto il cielo di piombo! Colore di cenere, intorno, le lische, i licheni, le rupi; tu acqua, rotonda nel mezzo, colore d'acciaio brunito. Tu piana nel mezzo dell'irte macerie; tu gelida, immobile, come di marmo, acqua tetra; acqua di marmo nero».

E' certo, comunque, che anche Francesco Chiesa sarebbe stato colpito, in un modo o nell'altro, da ciò che unisce e nello stesso tempo distingue lo Starlarèsc da Scimarmòta, il Pianca e il Masnee.

Che cosa si prova davanti allo Starlarèsc da Scimarmòta, un laghetto che è orgoglioso delle sue ridotte proporzioni e le valorizza concentrando quello che serve a renderlo pittorescamente personale?

La neve vi dura, attorno, a lungo, quasi volesse fare aspettare, per renderlo più gradito e sorprendente, l'inizio della parte svolta dall'erba che, fra tante rocce, potrebbe risultare fuori posto e invece perfettamente s'accorda con l'acqua che se ne fa prestare il colore e poi lo mescola con la luce, ricavandone tinte che rendono più profondi i riflessi e più ampi i contorni.

Non ha, questo laghetto, le cupe leggende dello Sfundau, la storia industriale del Miniera, la sinistra eco del Nero, i tragici racconti del Ritom, ma possiede e mostra i segni, inconfondibili, di una montagna che ne ha fatto la sua frastagliata coppella e vi ha poi immesso un liquido che, quando s'azzurra, dà l'impressione di essere stato portato, con le brente, fin lassù dopo essere stato rubato a un mare del Sud.

Il Pianca occupa un terrazzino scolpito, su misura, dai ghiacciai e ha, lungo le rive, gneiss ed erba, sempre in gara per farsi rispettivamente vedere più bianco e più verde.

Tra il bianco (che può essere preso, da lontano, per ghiaccio triturato) e il verde (che tenta di smentire Giovanni Bertacchi, il cantore delle montagne, il quale, giunto a un lago alpino, si accorge che «fior non rallegra qui la sconsolata landa») ricama i suoi spiazzi formanti una platea da cui si può assistere al nascere, nell'acqua, dei crinali e al cambio delle ore segnate dal cromatico trascorrere del tempo.

Anche al Pianca, qualche larice di sassaia vive nella speranza di essere rispecchiato e ringiovanito quando il vento lievemente agita tutte le copie immerse e dà ad esse nuovi profili (ed è, allora, come se il vento lasciasse cadere nei laghetti il seme delle sue scelte e vi riproducesse quello che ha incontrato lungo il suo planare verso l'acqua che lo attira).

Il Masnee cerca di imitare il Pianca (di cui Filippo Bianconi pubblicò, nel 1969, una fotografia, notando che «quasi si stenta a credere alla possibilità dell'esistenza di un lago, pescoso per di più, in un paesaggio così crudo») e si affida, pure esso, alla luce che scende nella sua acqua quasi scivolasse dalla cresta e crea, raggiunto il laghetto, guizzi di lucciole diurne, scontri di liquidi raggi e di ombre ancora asciutte, arrivi di bagliori svelti come tentacoli e di trasparenze che tremano come se avessero freddo.

Lo Starlarèsc da Sgióf emette, da parte sua, per chi vuole uscire dall'itinerario dell'escursione, un brillìo che compensa, con la sua sfolgorante intensità, la posizione poco solatìa di un laghetto posato anch'esso su un terrazzo che spinge il pascolo fin dentro l'acqua e l'acqua, a sua volta, fin sopra l'erba: a far pensare a pesci che si nutrono, brucando, come pecore sommerse.

L'acqua è poca e tende a diventare, nella bella stagione, acqua di palude, ma non per questo è priva di quei contrasti che animano, aiutati dal sole o dalle nubi, i laghetti alpini, ai quali la poca profondità, permette, come nel caso dello Starlarèsc da Sgióf, i giochi tonali che prediligono la superficie e si possono toccare, a rischio di spezzarli, con le mani.

Ma l'escursione non ha da vendere solo laghetti che si sfidano a colpi di luce: vi sono le selve che ricordano Valerio Abbondio («Tra le scure abetaie un fioco verde / di betulle par nebbia, da lontano, / che vi si impigli: se vi passa il vento / non la disperde, e la montagna brilla») e le acque già descritte da Luigi Censi («Canta l'acqua che scende dal nevaio / l'eterna, l'immutata sua canzone»); vi sono cascine spinte a forza dall'ingegnosa necessità dell'uomo sotto i lastroni di sasso e panorami che incanterebbero Angelo Tamburini (che nel 1928, raccomandando ai genitori di portarvi i figli, affermò: «Sulle montagne vi è qualcosa di immenso e di grande, v'è la poesia della bontà; v'è la natura sempre generosa»); vi sono alpi che vorrebbero rivivere e sentieri aperti dalla fatica di coloro che su questi alpi passarono la loro esistenza dura e insieme felice.

Vi è, insomma, lungo l'itinerario, tutto ciò che fece compiaciutamente concludere nel 1871 a Ulisse Guinand nel suo popolare «Compendio di geografia»: «Si può dire che le montagne ticinesi formino un magazzino ove la natura ha depositato le sue ricchezze».