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Autori: Mattia Bertoldi
Data: 03 settembre 2015

Pietro Grandi ci racconta gli ultimi Giochi olimpici speciali da allenatore della nazionale svizzera

Le bocce, la disabilità e quelle emozioni speciali

Si è conclusa lo scorso 2 agosto la XIV edizione dei Giochi olimpici speciali, che ha visto il Ticino distinguersi a livello internazionale con ben sette medaglie. Merito anche di Pietro Grandi, capo arte in un laboratorio del penitenziario cantonale e da quattordici anni allenatore della nazionale svizzera di bocce per ragazzi diversamente abil. Ecco il suo racconto.

Signor Grandi, lei lavora da quasi 40 anni in un carcere penale � prima in qualità di guardia, poi come capo arte in uno dei laboratori. Com’è nata la sua carriera di allenatore di bocce?
“Dalla mia passione per il gioco stesso, che mi ha anche portato nel comitato della Federazione ticinese. Circa 14 anni fa ci è arrivata una richiesta dalla Sport Invalidi Lugano che era alla ricerca di qualcuno che potesse allenare dei dei loro ragazzi disabili. Ho risposto subito di sì, e in pochi anni siamo passati dai primi sei ragazzi iscrittisi a Lugano alla nascita di un ulteriore gruppo nel Mendrisiotto,  uno nel Bellinzonese e uno a Biasca, per arrivare ora  a un totale di oltre quaranta giocatori in tutto il Cantone”.

La XIV edizione dei Giochi olimpici speciali è stata la vostra prima esperienza internazionale?
“No, abbiamo esordito sul palcoscenico internazionale a Lodi, nel 2009, per i Giochi europei dai quali siamo tornati con due ori (gara a squadre e a coppie). Ci sono poi stati i Giochi olimpici speciali di Atene con altrettante medaglie nelle medesime gare, gli Europei di Anversa nel 2014 con ancora tre allori (due individuali e l’altro a squadre) e infine i Giochi di Los Angeles, con un bronzo individuale e un quinto posto nella competizione a coppie”.

Lei ha insegnato il gioco delle bocce anche a persone normodotate. Quali sono le principali differenze?
“Trovo che con i ragazzi disabili sia tutto più semplice. Io li considero innanzitutto delle persone vere, che non hanno sotterfugi e sfuggono alla cattiveria. Sono ciò che sono, e questo si vede anche nello sport. Regalano grandissime soddisfazioni, glielo assicuro”.

Ci può descrivere che cosa si prova durante un evento come i Giochi olimpici speciali?
“Sono emozioni difficili da raccontare, sensazioni forti che si rinnovano e cambiano a ogni evento e che ti accompagnano tutta la vita. A Los Angeles eravamo in 10 mila (7500 atleti e 2500 monitori), a rappresentanza di 170 Paesi. E le assicuro: riuscivamo a capirci tutti, anche se non parlavamo la stessa lingua”.

Cosa vi accomunava?
“Lo spirito di una competizione speciale come quella: se uno riesce a dare il massimo, ha già vinto. Un po’ come diceva il fondatore dei Giochi olimpici, Pierre de Coubertin: l'importante non è vincere ma partecipare. La cosa essenziale non è la vittoria ma la certezza di essersi battuti bene”.

Ci sono degli elementi in comune tra il suo lavoro in penitenziario e la sua attività nel mondo delle bocce?
“Ho compreso in maniera ancor più profonda quanto la mancanza di libertà possa influire sulla vita di una persona. “Libertà” è una parola breve, ma ha un significato enorme � per me, è la cosa più importante della nostra esistenza. Non siamo però quasi mai in grado di percepirne il peso, e quando arrivo a condividere con una persona disabile o un detenuto questa mancanza, faccio del mio meglio per aiutarli e favorire la loro integrazione nella società”.

Questo doppio ruolo l’ha cambiata?
“Sì, molto. Riesco a individuare con maggior facilità i problemi di una persona e ciò che la contraddistingue da un’altra - un’empatia fondamentale per avvicinarmi e creare un legame. Questa dimensione si sposa poi bene al gioco delle bocce, uno sport basato sulla convivialità e lo scambio di idee tra persone di età compresa tra i 7 e i 90 anni. Un ambiente che fa bene alle persone, perché sono diverse quelle che imparano qui a relazionarsi con il prossimo e ad aprirsi”.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?
“Be’, se tutto va bene alla fine del prossimo anno andrò in pensione, e a quel punto potrò dedicare più tempo alla nazionale svizzera di bocce per i miei ragazzi diversamente abili. Ci sono già dei club in Ticino, a Ginevra e a Basilea, ma abbiamo dei progetti per coinvolgere giovani atleti anche a San Gallo, Berna e Zurigo”.

Qual è l’emozione più grande che il lavoro di allenatore le ha dato?
“L’ho vissuta a Lodi, al nostro esordio internazionale. Eravamo in finale nella competizione a squadre, ma ovviamente non abbiamo detto nulla ai ragazzi per non emozionarli. Quando abbiamo vinto, sono balzato giù dalle tribune e sono corso verso di loro, piangendo. Uno dei nostri giocatori mi si è avvicinato, e mi ha chiesto: “Pietro, ma perché piangi?” Gli ho risposto: “Piango perché sono felice”. E lui, saltandomi al collo: “Allora piango anche io”. Ecco, quello è stato un momento che non potrò scordare mai”.