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Autori: Valerio Bernasconi
Autori: Sabrina Caneva
Data: 22 giugno 2010

Intervista a Valerio Bernasconi, Capo Cancelleria della SEPEM con sede a Torricella

40 anni al servizio dello Stato: un sentito grazie a Valerio Bernasconi

A Torricella-Taverne l'edificio della Sezione esecuzioni delle pene e delle misure (SEPEM) si trova immerso nel verde, in una sorta di piccolo idillio dove i detenuti scontano i propri debiti con la giustizia. Valerio Bernasconi ci ha accolto nei suoi spazi con un largo sorriso e lo spirito di chi si appresta a prendere una nuova strada, ovvero quella del meritato pensionamento. Da ben 40 anni Valerio si muove in questo contesto di estrema umanità dove il lavoro di funzionario si mescola giornalmente con il contatto umano diretto, in un continuo lavoro di pianificazione e mediazione per ridare un senso alla vita di persone che si sono perse nel loro spesso tragico vissuto.

Da 40 anni presta servizio per lo Stato del Cantone Ticino. Come ha vissuto questo lungo periodo professionale? Com'è iniziata la sua carriera presso la SEPEM?

Ho cominciato il mio cammino professionale il 1 luglio del 1970 presso "La Stampa"; il penitenziario era in costruzione e in qualità di apprendista elettricista mi occupavo dell'impianto d'allarme e dei telefoni. In quegli anni la crisi si faceva sentire nell'edilizia ed ebbi la fortuna di vincere il concorso per il posto di agente di custodia sotto l'allora direttore del carcere Annibale Rabaglio. Dopo cinque anni di servizio a diretto contatto con i detenuti, venni promosso all'attività in ufficio e nel '77 fui nominato Capo Gruppo. Il 1 settembre del 1986 fu costituita la SEPEM (la cui struttura sarà cambiata nel 2011) e mi fu assegnato il nuovo incarico di Segretario della nuova Sezione esecuzione delle pene e delle misure, in un primo tempo presso il Penitenziaro cantonale "La Stampa", in seguito presso il palazzo governativo a Bellinzona. Dal 1992, dopo la ristrutturazione del Carcere aperto, gli uffici furono di nuovo trasferiti, questa volta a Torricella. Nel 1997 occupai anche la posizione di responsabile del piccolo Carcere aperto con la partenza di Fabio Castelli. Per 20 anni, dal'87 al primo gennaio 2007, svolsi pure la funzione di Segretario del Consiglio di vigilanza. Nel 1999 arrivò la nomina di Capo Cancelleria della SEPEM. Infine, tra l'aprile 2007 e il dicembre 2008 feci parte del triumvirato che assunse la direzione del carcere.

Dal punto di vista umano come ha vissuto il contatto continuo con i cosiddetti esclusi dalla società?

Quando ho iniziato il mio lavoro, il carcere era ancora considerato un luogo di contenimento, in cui bisognava vigilare che i detenuti non evadessero e che stessero tranquilli nelle loro celle. Agli inizi degli anni '70 cominciarono i primi cambiamenti nel concetto di carcere, a partire dalla legge che per la prima volta sanciva la necessità di risocializzare i detenuti. Così si modificò anche il mio lavoro, poiché il far eseguire le pene ora abbracciava anche la dimensione umana del recupero e del reinserimento sociale. Erano gli anni in cui si sperimentavano le prime misure di semi-libertà e di semi-prigionia. Nel tempo vennero introdotti anche i congedi e nel 2007 alcune agevolazioni come la possibilità di commutare la pena in ore di lavoro pubblico gratuito, in pene pecuniarie o ancora dal 1999 l'introduzione del braccialetto elettronico (il Ticino in questo senso è pioniere con altri cinque cantoni nel testare questo nuovo dispositivo di controllo) che permette al detenuto di salvaguardare un minimo di vita sociale e familiare. Queste trasformazioni nel lavoro hanno rappresentato un'esperienza appagante e arricchente dal punto di vista umano; ho toccato con mano tante problematiche che nel tempo hanno smussato il mio carattere, rendendolo meno duro. Sono entrato in contatto con persone disturbate da vari problemi psichici e fisici, la cui gestione (anche emotiva) non è stata sempre facile. È pur vero che mi ha sempre portato una grande gioia l'incontrare magari in città, gli ex-detenuti accompagnati dalla moglie e dai figli, con un lavoro e una vita sociale attiva. Significa essere riuscito a svolgere in modo ottimale il mio lavoro. Certamente non dimenticherò mai le morti in carcere o la sorte sciagurata di tanti giovani che sono passati dal mio ufficio.

Cos'è cambiato nelle carceri negli ultimi decenni? Ci sono stati dei momenti particolarmente problematici che le sono rimasti impressi nella memoria?

Il carcere dagli anni '70 è cambiato parecchio. In quegli anni si tennero i primi processi per l'uso e/o lo spaccio di stupefacenti; l'eroina e l'hashish erano entrate nella vita quotidiana e mietevano le prime vittime. Queste droghe non solo avevano iniziato a scombussolare la società ticinese, ma anche le nostre strutture carcerarie, impreparate ad accogliere detenuti che non solo erano condannati per reati ma che erano soprattutto in preda a uno stato vegetativo con cui era difficile interagire. Tuttavia anche il carcere ha trovato una soluzione progressiva a questi problemi e i bisogni personali e familiari dei detenuti sono stati man mano valutati e presi in considerazione, tanto che chi non può beneficiare di congedi per vari motivi, può comunque disporre di uno spazio privato per dei "colloqui interni". Il più grande sviluppo è stato ottenuto con i programmi di semi-libertà, che permettono il rientro in società dei detenuti. Non dimenticherò alcuni episodi, indelebili nei miei ricordi, in cui, negli anni '80, persero la vita due detenuti per overdose e un terzo per infarto, così come non dimenticherò facilmente la morte, seppur naturale, di un detenuto anziano avvenuta pochi giorni fa. Nel 2002 un altro fatto scioccò la nostra Sezione; in seguito all'evasione di alcuni detenuti, alcune persone, tra cui purtroppo un collega, morirono. Quella volta vi furono delle responsabilità anche all'interno del corpo agenti di custodia, cosa che colpì anche il nostro orgoglio di funzionari e l'immagine dell'istituzione. Una tragedia nella tragedia insomma.

Che evoluzione ha rilevato nel tempo per quel che concerne la criminalità, i reati?

Certamente i reati sono cambiati. Durante i miei primi anni di servizio ero confrontato con piccoli furtarelli, senzatetto, alcoolisti e piccoli teppisti. Oggi raramente si finisce in prigione per piccoli reati perché sono stati soppiantati dalle rapine a mano armata, dai sempre maggiori reati finanziari (una brigata permanente è stata costituita presso il Ministero pubblico per occuparsi esclusivamente degli illeciti finanziari) e dalla piaga del traffico di stupefacenti. Negli anni'70 nelle nostre carceri ci finivano i ticinesi e gli italiani, in seguito sono arrivati gli sri lankesi e i peruviani in fuga dal loro Paese, poi le vittime del regime di Tito e dell'ex Unione Sovietica. Ogni ciclo storico, ogni epoca porta a moti di ribellione nella società e questi moti variano a dipendenza di chi sono i "nuovi arrivati".

Il suo lavoro richiede un coinvolgimento emotivo non indifferente. Dalla SEPEM passano persone che vivono momenti turbolenti della loro vita. Come ha gestito il suo dovere con l'emotività delle situazioni che ha affrontato?

Tra queste mura passano persone che devono scontare pochi giorni come pure la reclusione perpetua. Il problema con cui maggiormente sono stato confrontato è stato valutare come devono eseguire la pena i detenuti. Il Piano esecuzione della sanzione (PES) prevede che nel periodo di detenzione il carcerato maturi la consapevolezza del reato e costruisca il suo futuro. Il che significa valutare se accordargli periodi di congedi o meno; per esempio per un persona tossicodipendente, il congedo può comportare il rischio che riprenda a fare uso di stupefacenti annullando così l'evoluzione fatta in carcere. Questo in sostanza, si chiama programma di reinserimento. Tra i detenuti vi è una grande eterogeneità; c'è chi si adagia e chi fino all'ultimo giorno ribadisce la propria innocenza, come spesso e volentieri succede con chi è colpevole di pedofilia. Per quel che riguarda il mio carattere e la gestione del mio lavoro, mi definirei uno "stacanovista"; per 40 anni sono sempre stato disponibile 7 giorni su 7, cosa che non mi ha comunque impedito di ritagliarmi spazi di tempo libero per svagarmi. Nel mio lavoro gli imprevisti fanno parte della quotidianità e questo è sicuramente un aspetto positivo. Non è per nulla solo amministrativo e men che meno ripetitivo.

Chi sono le persone che maggiormente hanno lasciato un'impronta in questi 40 anni di servizio? Vuole lasciare un messaggio ai colleghi della SEPEM e al suo successore?

Nell'ambito della mia professione di funzionario statale, ho avuto modo di incontrare molti magistrati, di conoscere personalmente i Consiglieri di Stato che si sono succeduti in questi anni, i colleghi dei servizi sociali, e della Polizia cantonale. Sono molto legato agli agenti di custodia. Al mio successore, la collega Dionne Grassi, auguro di saper gestire al meglio questo non sempre facile compito del reinserimento del detenuto.

Come impiegherà ora il suo tempo da pensionato? Quali progetti vorrebbe realizzare?

Vorrei iniziare a dedicarmi al volontariato, alle società della mia Canobbio, come il calcio e il carnevale. Curerò il mio orto e sicuramente passerò più tempo possibile con la mia famiglia e le mie nipotine.