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Autori: Coco Acquistapace
Data: 31 dicembre 2005

Il piatto che più di ogni altro rappresenta la Roma culinaria nel mondo, NON è romano

Du bbastardi... aammatriciana

In verità, molte altre sono le pietanze tipiche di Roma, ma un ipotetico sondaggio riporterebbe la maggioranza delle risposte verso l'amatriciana

«Roma Caput Mundi»
«Tutte le strade portano a Roma»
«Urbi et Orbi»
Sono solo 3 delle centinaia di locuzioni o modi di dire che citano quella che nel mondo antico era definita semplicemente «Città» per antonomasia: Roma appunto.
Sarebbe presunzione allo stato puro pensare di scrivere qualcosa di esaustivo su questa capitale, per secoli il centro del mondo conosciuto e che ancor oggi, anche solo sentirne il nome, suscita emozioni contrastanti soprattutto per la molteplicità degli aspetti legati a Roma; e probabilmente potremmo scrivere per anni senza correre il rischio di ripeterci né di esaurire l'argomento.

Proprio a questo proposito, la cernita del soggetto da trattare è andata nella direzione della cucina, piacere a cui i romani indulgono ben volentieri da sempre:
M'arzo 'na mattina de bon'ora
P'annà a ffa colazione in terra piana
De vino me ne bevvi 'na cantina
Centoccinquanta botti a la romana
De pane ne magnai sette groste
Si nun scappava, mme magnavo pure l'oste.
L'oste dda a paura scappò via
E i' restai padron dell'ostaria
L'oste dda a paura scappò ffora
E i' restai co' la di lui fijola!

(Antica filastrocca romana)

Gli antichi romani si concedevano al cibo in tre distinti momenti della giornata: 

al mattino con una frugale colazione a base di pane e formaggio, preceduta da un semplice bicchiere d'acqua (jentaculum) poiché i medici di allora vietavano espressamente un pasto abbondante;

a mezzogiorno consumavano un leggero pranzo con pane, carne fredda, frutta e vino, la maggior parte delle volte in piedi (ecco i veri inventori del fast food);

il momento principale, anzi il vero e proprio pasto degli antichi romani, era la cena (coena), che iniziava alle 16 e, in genere, si protraeva fino all'alba del giorno dopo. 

Tale cena si gustava nei triclini (triclinia), stanze così chiamate perché ammobiliate con tre divani - con al centro la tavola delle vivande -, su ciascuno dei quali si accomodavano, sdraiate, tre persone; il numero normale dei commensali era pertanto di 9 persone o multipli di 9.
La posizione in cui si mangiava era semisdraiata sul fianco, con l'appoggio sul braccio sinistro e con il destro si attingevano i cibi e il vino dalla tavola. Ai giorni nostri può sembrare una postura alquanto scomposta, ma i romani consideravano molto più scomodo restare seduti; a questo proposito si narra che Catone l'Uticense fece voto solenne di mangiare seduto finché non fosse stata sconfitta la tirannide di Giulio Cesare.

La già allora tipica giocosità romana insegnava che i convitati eleggevano un sovrintendente del banchetto, chiamato «tricliniarca», che aveva anche il compito di scegliere i vini e di stabilire la proporzione tra vino (che molto raramente era bevuto puro) e acqua.
Non appena sistemati al loro posto, i commensali detergevano le mani in acqua profumata, dopodichè iniziava il banchetto articolato in tre servizi: quello degli antipasti e stuzzichini (gustatio), accompagnati dal vino mielato (mulsum), il pranzo vero e proprio (primae mensae), che prevedeva sette portate, e infine le secundae mensae, in cui si saziavano con stuzzichini piccanti atti a eccitare la sete per raggiungere uno stato di ebrietà.

Oggigiorno le cose sono molto cambiate, seppur la cena risulti ancora essere il convivio principale della giornata quando si gustano le specialità tipicamente romane, quali:

gli antipasti
il pecorino con le fave , i panzerotti romani e i crostini con le alici;

i primi piatti
a base di pasta fresca;

i secondi piatti
saltimbocca alla romana, l'agnello scottadito, la pajata, la coda alla vaccinara;

e i dolci
i maritozzi, i mostaccioli e il pangiallo.

Vi sembra che manchi qualcosa? Ebbene sì!

È stato omesso il piatto che più di ogni altro rappresenta la cucina romana in Italia e nel mondo: i bucatini all'amatriciana.
Il nome deriva da Amatrice, un paese al confine tra Lazio e Abruzzo che da sempre vanta la paternità di questo piatto che nel tempo è diventato invece uno dei piatti tipici delle trattorie e dei ristoranti di Roma. La pietanza è stata inventata dai pastori dei pascoli del Reatino, dove appunto si trova Amatrice, che lo avevano composto con i poveri, ma genuini, ingredienti di cui disponevano e che potevano facilmente trasportare con sé, per esempio il guanciale che è il più importante ingrediente, e si tratta di un salume ricavato dalla gola e dalla guancia del maiale, più magro della pancetta.

Ingredienti per 4 persone:
400 g di bucatini
200 g di guanciale
50 g di pecorino rigorosamente romano grattugiato 
1/2 dl di olio extravergine d'oliva pressato a freddo
500 g di pomodori freschi
un cipollotto
un peperoncino
sale e pepe quanto basta

Esecuzione:
Far bollire i pomodori per 1 minuto in acqua molto bollente; spellarli, privarli dell'acqua di vegetazione e dei semi, dopodichè ridurli a filetti.
Dorare il guanciale a cubetti nella tradizionale padella di ferro con l'olio d'oliva; rimuoverlo con la schiumarola e riporlo a parte.
Soffriggere, nello stesso olio, il cipollotto e il peperoncino puliti e tritati; dopo un po' aggiungere i filetti di pomodoro. Regolare di sale e proseguire la cottura per 10 minuti.
Qualche minuto prima che la salsa si riduca, unire il guanciale e fare insaporire il tutto.
Nel frattempo bollire i bucatini in abbondante acqua salata, scolarli molto bene, condirli con il sugo e il pecorino e servire molto caldi.