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Autori: Oliver Broggini
Data: 16 aprile 2014

Incontro con il Consigliere di Stato Manuele Bertoli, neo presidente del Governo

«Mi aspetta un anno da direttore d'orchestra»

Una chiacchierata ad ampio spettro sull'attualità politica del Cantone e della Confederazione, che - accanto ai temi tradizionali - tocca anche argomenti non sempre al centro del dibattito; dal reddito di base incondizionato alla «guerra delle generazioni», dagli effetti della rivoluzione digitale sul mondo del lavoro fino ai dilemmi sollevati dalla medicina tecnologica.

Manuele Bertoli, nel luglio dello scorso anno conquistò il pubblico della «Züri Fäscht» con un'esibizione al pianoforte; cosa le piacerebbe suonare ai ticinesi, per iniziare bene questo anno presidenziale?
«In questo anno mi toccherà suonare assieme ai miei colleghi, ma nel contempo anche dirigere la band. È piuttosto questa dimensione da direttore d'orchestra che andrà curata, anche se la musica in fondo la fanno i musicisti e la loro volontà di suonare assieme - se c'è».

Una dichiarazione d'intenti che sembra riecheggiare il motto scelto dal nuovo Vescovo di Lugano - «Non disturbare la musica» - e che porta con sé una domanda aggiuntiva; questo Consiglio di Stato avrà il tempo - e la forza, in un anno elettorale - di operare in modo concertato, oppure prevarranno le ambizioni solistiche?
«Mi chiede di fare previsioni che non sono in grado di fare. Ho comunque chiesto ai miei colleghi di poter lavorare tranquillamente almeno fino alla fine del 2014, in modo da lasciare lo spazio della campagna elettorale a un paio di mesi».

Il 9 febbraio continua ad aleggiare sulla discussione politica nel Cantone, quindi vale la pena di affrontarlo subito, approfittando delle analisi rese note proprio in questi giorni. Per il Ticino, è emersa l'immagine di una scelta trasversale e maturata da tempo, con una larga disponibilità - da parte di chi ha votato «no» - ad accettare anche l'eventualità di una rescissione degli Accordi bilaterali. Come commentare?
«Come ho commentato sin da subito. Che un conto sono le preoccupazioni più che legittime dei cittadini per sé medesimi, per il proprio destino e per l'acuirsi di anomalie che generano problemi. Altro conto invece è proporre soluzioni all'altezza dei problemi, anziché esasperare gli animi inventando ricette più problematiche dei problemi stessi. Ed è esattamente quello a cui stiamo assistendo oggi, dopo quel fatidico 9 febbraio. Molti non hanno ancora capito cosa significa isolarsi, quali elementi negativi porterebbe davvero con sé questa scelta».

Mi viene in mente una tesi di Slavoj Zizek, che vede lo spazio sociale contemporaneo fratturato in due «caste» ormai incapaci di dialogare; «edonismo illuminato e multiculturalismo per la classe intellettuale, fondamentalismo populista per la vecchia classe operaia». E se per la maggioranza degli svizzeri - e ticinesi - la scelta dell'isolamento fosse consapevole, con la disponibilità ad accettarne i rischi?
«Viviamo in un Paese democratico, per cui se la scelta della maggioranza sarà l'isolamento ci isoleremo. Ma ne dovremo apprezzare - o maledire - tutte le conseguenze».

In questi giorni lei ha già rilasciato numerose interviste, perciò - per non obbligarla a ripetersi - le propongo di riciclare alcune sue dichiarazioni, sfruttandole come punto di partenza. Cominciamo con questa, sul lavoro del Consiglio di Stato: «Fin qui è stata una Legislatura nella quale, comunque, sono state fatte cose rilevanti. Non è vero che non si è fatto nulla, come si sente dire in giro». Come spiega questa impressione di inattività, e come possiamo provare a correggerla?
«Direi che in linea generale è un classico. Da sempre e ovunque, i Governi sono nell'occhio del ciclone della critica, razionale o immotivata che sia - insomma, "piove Governo ladro". Certo che se poi c'è chi delle critiche anche più sconsiderate fa azione di propria propaganda quotidiana, spesso per mascherare la propria inazione, diciamo che i pregiudizi si possono fare ancora più consistenti».

Nel suo bilancio ha parlato di un «buon ambiente» all'interno del Consiglio di Stato, ma è pur vero che all'esterno del Palazzo - come abbiamo visto - il clima politico sembra spesso essersi incattivito. È solo un problema di immagine del Governo o si tratta del riflesso di tendenze più ampie?
«Mi sembra che stiamo assistendo, in Ticino come in altre parti d'Europa, a una mutazione generale del clima sociale e culturale, prima che politico. Tutta una serie di elementi hanno portato all'ampliamento di un senso composito di incertezza, di timore, di rancore. Le reazioni a questi fenomeni che dalla notte dei tempi si fanno collettivi sono state ampiamente illustrate e spiegate dalla psicologia di massa. Se è normale che la politica intercetti questi sentimenti, non dovrebbe esasperarli e dovrebbe concentrarsi sulle risposte da dare, sulle quali le opinioni sono spesso divergenti e c'è del lavoro da fare per trovare soluzioni comuni. Personalmente, al di là delle diversità di vedute, credo che compito di politici responsabili sia costruire risposte solide e sostenibili alle legittime preoccupazioni popolari, non certo soffiare sul fuoco delle esasperazioni fomentando odii, disprezzo e razzismo. Dove c'è il rischio di andare a finire procedendo in questa direzione ce l'hanno spiegato non solo la psicologia, ma la storia stessa».

Rivolgendosi direttamente ai ticinesi, lei li invita a rendersi conto che «siamo un Cantone con molte opportunità che siamo chiamati a cogliere, evitando di perderci in piccole battaglie che disgregano la comunità». Su quali di queste opportunità dovremmo puntare, a suo modo di vedere?
«Siamo un Cantone di cerniera tra aree culturali, economiche e finanziarie di primo piano. Questo ci apre numerose opportunità, ma è anche un rischio. Nel tempo abbiamo saputo sviluppare competenze specifiche in tutte queste aree, producendo anche delle vere e proprie eccellenze. Per restare nel mio ambito di competenza, i poli di ricerca scientifica attivi sul nostro territorio sono di levatura internazionale. Ecco, credo che dovremo mostrare il nostro orgoglio attraverso queste cose e non nella pretesa assurda e suicidale di chiuderci in noi stessi, immaginandoci di potere sfidare l'universo».

Tra i temi prioritari, lei cita in particolare la nostra appartenenza alla Svizzera. Il suo predecessore Paolo Beltraminelli ha detto di avere notato - durante il suo anno presidenziale - un salto di qualità nell'attenzione accordata alle questioni ticinesi da parte delle autorità federali: lei che obiettivo si pone, nel prossimo anno, per quanto riguarda i rapporti con la Confederazione?
«Non è una novità che uno Stato nazionale, per quanto federale e decentralizzato possa essere, fatichi alle volte a comprendere le specificità e le esigenze di una minoranza, per di più periferica. In taluni casi quella "disattenzione" può essere anche appesantita da un certo grado di colpevole negligenza. Ma siccome nei rapporti umani, quando qualcosa non funziona, tendo a escludere che la responsabilità stia tutta da una sola parte, anche noi qualche domanda sulle nostre attitudini confederali dovremmo porcela. Detto questo, e con questo specifico spirito, la mia intenzione è proprio quella di favorire il più possibile questa reciproca conoscenza. Insomma, mi piacerebbe far percorrere a Ticino e Svizzera le tappe dell'innamoramento».

Il riferimento all'innamoramento è affascinante: può spiegarsi meglio?
«L'innamoramento è fatto di seduzione, di capacità di farsi apprezzare per le cose positive, non di piagnistei e musi lunghi da pretendenti - nel senso di quelli che sanno solo pretendere».

Sul risanamento delle finanze cantonali, a suo modo di vedere il Governo non ha ancora affrontato la sfida in maniera risolutiva: «Scelte forti non ne sono state fatte, e il deficit strutturale è sempre lì». Lei vede una via d'uscita da questa situazione di stallo?
«Guardi, su questo tema le strade percorribili sono sempre e solo tre. O tagliamo le uscite, ma significa rinunciare a una serie di servizi che vediamo essere regolarmente pretesi anche a gran voce dalla popolazione. O aumentiamo le entrate, e - al di là di visioni ideologiche - io credo che spazi ve ne siano, in campi dove davvero stiamo vivendo situazioni di ingiustizia. Oppure lasciamo crescere il debito pubblico, ma questo - oltre una certa soglia - significa letteralmente mettere una pietra al collo ai nostri figli, ancora prima che si buttino in acqua. Un buon mix di queste tre opzioni potrebbe essere la strada giusta, come fatto in passato, ma non mi pare ci siano oggi le condizioni politiche per agire in questa direzione, l'unica praticabile».

In un Cantone che oggi conta oltre 40 mila soggetti fiscali - oltre il 23% del totale - del tutto esenti da imposte, è pensabile che queste nuove entrate, circa 50 milioni di franchi l'anno, giungano da chi oggi versa allo Stato poco o nulla?
«È pensabile, certo, ma non solo da loro, visto che sono anche quelli ai quali vengono ridotte le prestazioni sociali. Altrimenti andremmo a picchiare il chiodo sempre e solo in una direzione, sia con i provvedimenti di risparmio sia con quelli per nuove entrate. Per restare al fisco, se guardassimo da vicino tutta una serie di casistiche ci accorgeremmo di come in passato la politica tributaria sia stata impiegata per tutta una serie di azioni che non le competono. In questo modo, con l'evolversi della società, sono state prodotte vere e proprie storture che - di fatto - hanno finito con l'avvantaggiare chi non ne ha bisogno. Su questo punto dovremmo avere il coraggio di dire pane al pane e vino al vino - anzi, fisco al fisco».

E allora, facciamolo: quali sono le storture che abbiamo ereditato e dovremmo correggere?
«Gliene cito solo una, dal nostro sito ufficiale. Sarà venduto all'incanto un immobile situato a Castello: il valore di stima ufficiale ammonta a 4,6 milioni di franchi, contro un valore peritale di 18 milioni. Pensi a quante imposte qualcuno non ha pagato - al Cantone e al Comune - mentre tagliavamo prestazioni ai cittadini in questo e quel servizio».

Affrontando il tema dei rapporti confederali, lei ha ricordato l'aggravio subito dal Cantone nel settore del finanziamento ospedaliero, aggiungendo: «Se potessi spendere io 100 milioni in più ogni anno nella scuola, le assicuro che nel giro di poco tempo se ne accorgerebbero tutti». Le va di indicarmi, per gioco, come sceglierebbe di spendere queste risorse aggiuntive nel suo Dipartimento?
«No, perché non ho mai immaginato tanto. Mi accontenterei di molto meno e sono certo che sarebbero soldi ben spesi per il miglioramento della qualità della scuola con classi piccole, differenziazione pedagogica effettiva, docenti con spazi e tempi ottimali per seguire i ragazzi ecc. - per parlare solo della scuola dell'obbligo».

Nella discussione sull'economia ticinese, l'attenzione resta puntata sui frontalieri. A medio termine, tuttavia, il pericolo è la crisi economica acceleri il processo di sostituzione dei lavoratori umani attraverso l'automazione, come sta accadendo in altri Paesi. La scuola ticinese come sta affrontando la rivoluzione digitale?
«La scuola ticinese negli anni passati ha vissuto in questo campo una ampia serie di iniziative sorte - come si suol dire - "dal basso"; in molti casi, si è trattato di sperimentazioni addirittura all'avanguardia. Ora, però, credo sia giunto il momento di dare sistematicità al nostro approccio verso l'evoluzione, ormai travolgente, delle nuove tecnologie. Per questo motivo, dando seguito alle indicazioni elaborate da un apposito Gruppo di lavoro che ho voluto istituire più di un anno fa, abbiamo iniziato col dare forma a un Centro di competenze che si occupi del rapporto tra scuola e nuove tecnologie, sia nella dimensione puramente tecnica sia in quella didattica. Abbiamo del tempo da recuperare, certo, ma credo che siamo partiti bene - anche se il cammino non sarà facile e non sarà breve».

Restando in tema di nuove tecnologie: di fronte alla prospettiva di un futuro non troppo lontano nel quale avremo subappaltato alle macchine anche i lavori intellettuali, alcuni invocano il reddito di base incondizionato - ad esempio i 2.500 franchi mensili proposti da un'iniziativa popolare federale - quale unica soluzione all'inevitabile «disoccupazione tecnologica»: lei cosa ne pensa?
«Il tema è complesso e delicato perché investe in pieno la questione centrale del sostentamento degli esseri umani, ma anche della loro rappresentanza all'interno delle società. Un reddito di base incondizionato garantirebbe una dimensione di dignità a ogni membro della collettività, dignità che - secondo i nostri valori culturali attuali - passa dal ruolo professionale dei cittadini, ma non solo. Nessuno ritiene oggi indegno, per esempio, che qualcuno viva di rendita in base al denaro investito, per merito o per tradizione familiare, in qualche impresa economica. Non ho opinioni definite sul reddito di base, ma si tratta di un tema del quale discutere, anticipando i problemi che il futuro potrebbe porre, perché compito della politica è prevedere i problemi, non arrivare in ritardo».

L'altra grande sfida per il futuro è quella demografica. I trentenni e quarantenni di oggi saranno chiamati a sovvenzionare prestazioni generose per un numero crescente di persone sempre più anziane, pur sapendo che - una volta giunti a loro volta alla terza età - non potranno beneficiare di un analogo trattamento previdenziale e sanitario. Come potremo evitare una «guerra delle generazioni»?
«Questo è un altro nodo decisamente epocale. La domanda sul chi o cosa finanzierà la pensione di tutte quelle moltitudini di donne e di uomini che con il proprio lavoro hanno finanziato la quiescenza dei loro predecessori - preparando in parte anche la propria - direi che sia diventata ancora più drammatica dopo votazioni come quella del 9 febbraio. Attualmente sono infatti proprio gli afflussi di persone straniere a riequilibrare il saldo demografico delle moderne democrazie occidentali, Svizzera compresa. Prima ancora della questione finanziaria, tuttavia, dovremo iniziare a porci il problema di quando è opportuno o adeguato immaginare che la vita possa finire. Sarebbe triste ed incivile se dovessimo fare delle scelte in questo delicatissimo campo solo per soldi».

È vero che, in fondo, l'invecchiamento della popolazione è l'effetto collaterale di un successo storico straordinario - quello della medicina tecnologica - che tuttavia raggiunge spesso prezzi insostenibili, perfino per la ricca Svizzera. Banalizzando i termini della questione, lei ha idee su come il nostro sistema potrà affrontare il «Dilemma della cura da 1 milione di franchi al mese»?
«Penso che non sarà in grado di farlo - e che sarebbe anche insensato che ci provasse. Per questo dobbiamo porci il problema, prima di tutto dal profilo etico, di quando è opportuno o adeguato immaginare che la vita possa finire; altrimenti saranno solo ragionamenti finanziari a prevalere, quindi un'impostazione sostanzialmente grossolana ed incivile».

Tornando per un istante alla votazione del 9 febbraio, ma da un punto di vista dipartimentale, lei si è visto confrontato soprattutto alla richiesta di favorire l'inserimento dei giovani docenti locali nel sistema-scuola. È davvero più difficile oggi, per un ticinese, accedere a una carriera nell'insegnamento?
«No, anche se il curricolo per divenire insegnanti è impegnativo e non è per tutti. Anche in questo caso, una certa propaganda politica ha esasperato - quando non inventato tout court - delle situazioni puntuali. È vero che riceviamo un numero sempre maggiore di candidature da parte di potenziali docenti stranieri, esattamente come avviene in altri rami professionali; questo però non significa che i candidati siano poi assunti. Abbiamo sin da subito agito cercato di correggere le storture del sistema, e cerchiamo di garantire una giusta protezione ai curriculi formativi dei nostri giovani, quando vi sono i requisiti richiesti».

Sempre con un punto di vista dipartimentale, passiamo al tema sport, e - anche se la stagione è ormai finita - parliamo di quelli invernali. È noto che il tema del sostegno agli impianti di risalita rappresenta per il Ticino un vero rompicapo, nel quale configgono posizioni politiche, valutazioni di sostenibilità economica, considerazioni climatiche e - non da ultimo - l'esigenza di prospettive per le nostre valli. Quale è la sua posizione?
«Il futuro di questi impianti non è roseo e - dove possibile - bisogna cercare di usarli al di là della stagione invernale. Il fatto che si trovino nelle valli, quindi sul territorio di Comuni finanziariamente non forti, tende a cantonalizzare il tema del loro sostegno, cosa che pone un problema di parità di trattamento con altri impianti sportivi costosi, ad esempio le piscine coperte, per le quali il Cantone non paga nulla. Una buona soluzione sarebbe di lasciare alla dimensione comunale la scelta di sostenere o meno queste realtà, come in parte hanno già fatto Acquarossa e Faido per Nara e Carì; per generalizzare questa prassi, però, servirebbero meno Comuni - il Piano cantonale delle aggregazioni va in questa direzione - e una perequazione intercomunale semplificata ed efficace, o una diversa ridistribuzione fiscale delle risorse - ad esempio con le imposte delle persone giuridiche unicamente cantonali assegnate in parte ai Comuni, non solo secondo il domicilio».

Per completare il giro di orizzonte sui temi legati all'attività del suo Dipartimento, manca solo la cultura: il 2015 si annuncia come l'anno dei grandi progetti, fra l'Expo milanese e l'inaugurazione del LAC a Lugano. Come le piacerebbe vedere posizionato in futuro il Ticino, in questo settore?
«Mi piacerebbe vederlo posizionato secondo lo spirito di quanto definito dalla nuova legge della quale il Ticino, finalmente, si è dotato. Grande spazio di manovra alle autonomie locali e individuali, coordinamento da parte del Cantone attraverso il sostegno finanziario e - quando richiesto e là dove la portata del progetto lo giustifichi - sviluppo di forme di partenariato. Lo Stato poi è attivo in proprio con la rete di propri istituti di grande e riconosciuto valore sia in ambito museale, che archivistico e bibliotecario. E proprio su questo fronte stiamo lavorando a un progetto molto interessante che si appoggia a un impiego approfondito delle nuove tecnologie. Ma per il momento non voglio fare troppe anticipazioni...».

Concludiamo con una domanda di respiro più locale, che riguarda la sua regione di residenza; dal suo osservatorio privilegiato, può indicarci brevemente cosa possono aspettarsi i locarnesi dal prossimo anno?
«Mi vengono in mente almeno tre cose. Anzitutto, la discussione sul Piano cantonale delle aggregazioni - che ha, quale tema forte, i quattro poli del Cantone - rappresenta un'occasione anche per il Locarnese, a patto che ci sia la volontà di accettare una prospettiva diversa da quella del passato. Di sicuro quanto proposto dal Consiglio di Stato non è facile da realizzare, ma offre l'opportunità di gestire meglio il futuro del Cantone».

E gli altri due argomenti?
«Il primo è la politica culturale. Il Cantone - tramite il DFE e il DECS - interverrà a sostegno del Palacinema, perché ritiene che il festival del film di Locarno debba essere salvaguardato nel luogo e con il profilo che ha attualmente. Accanto a questo progetto, tuttavia, non va dimenticata l'importanza di intervenire anche sul Palazzetto Fevi, che - da un punto di vista operativo - è davvero essenziale per il funzionamento del Pardo».

Non credo di sbagliarmi - visto che anche lei è un pendolare... - se ipotizzo che il terzo tema riguardi dunque la mobilità, e in particolare il collegamento autostradale A2/A13.
«Se guardo indietro al 2007, e alla decisione del popolo ticinese di bocciare la Variante '95, devo osservare che si trattò di un'occasione che il Cantone perse, scegliendo di puntare su un'opzione pericolosa dal punto di vista territoriale. L'obiettivo, anche tenendo conto di quel verdetto, deve a mio avviso essere una soluzione viaria efficace che non aggiunga nuovi problemi, e non alimenti "appetiti edilizi" poco sani. Da questo punto di vista, il fatto che il dossier sia ora in mano a Berna non è del tutto negativo: può essere utile che un tema così sentito venga osservato da un punto di vista esterno alla realtà locale».