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Autori: Paola De Marchi-Fusaroli
Autori: Tazio Carlevaro
Data: 25 ottobre 2006

Intervista di Paola Fusaroli al dottor Tazio Carlevaro, che alla fine dello scorso mese di agosto ha lasciato il suo incarico quale responsabile per il Sopraceneri dell'Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC) per riprendere l'attività privata

Una carriera in evoluzione...

Una carriera professionale caratterizzata da un'alternanza tra attività privata e attività nel settore pubblico. Prima di essere nominato responsabile per il Sopraceneri dell'Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, incarico che ha svolto per sedici anni, il dottor Tazio Carlevaro si è infatti dedicato per una decina d'anni all'attività privata. Attività che ha da poco deciso di riprendere. Lo abbiamo incontrato per parlare della sua esperienza.

Lei ha seguito da vicino l'evoluzione della psichiatria pubblica...

«Nel 1972 ho cominciato a lavorare in qualità di medico assistente presso l'Ospedale neuropsichiatrico cantonale (ONC). Allora, nell'ambito psichiatrico, vi era solo questo gigantesco ospedale, molto chiuso e poco attento alle esigenze della libertà individuale. La situazione, però, stava già iniziando a evolvere. All'interno dell'ospedale era appena stato assunto dalla Direzione un animatore. Inoltre, si cominciava a pensare che la necessità non fosse tanto quella di avere un grande ospedale, quanto un'assistenza esterna. Chiaramente, il cambiamento è stato lento. È stato necessario modificare la legge, creare servizi esterni, ecc. Si è passati dagli oltre 800 letti di allora agli attuali 140 della Clinica psichiatrica cantonale (CPC) di Mendrisio. La presa a carico di certi pazienti cronici è stata affidata a foyer esterni. E questa è un'ottima soluzione, poiché l'ospedale va bene per le malattie acute o per l'acutizzazione, ma per quanto riguarda la riabilitazione sono più adatti gli educatori, gli assistenti sociali, i monitori, ecc.».

Psichiatria pubblica e psichiatria privata. In che cosa si differenziano questi due ambiti professionali?

«Tutto sommato non credo che le due carriere professionali siano in contrasto tra loro. Nell'una è lo Stato che organizza, mentre l'altra si basa sull'impresa privata. Il vantaggio di un'impresa privata è che se la pensi e la gestisci bene, alla fine i buoni risultati sono tuoi. Invece, se sei alle dipendenze dello Stato, prevale l'aspetto morale, vale a dire la soddisfazione di aver fatto un lavoro utile un po' per tutti. E per chi come me ha avuto o ha tuttora il compito di provvedere ai servizi di cura si tratta di soddisfazioni importanti. Ciò non significa tuttavia che nell'attività privata non vi sia questo aspetto morale. È presente, ma in maniera diversa.

La psichiatria pubblica ha inoltre un compito molto particolare, che il privato ha difficoltà a svolgere in modo adeguato. Si tratta della psichiatria sociale, ossia di quel ramo della psichiatria, dove la riabilitazione ha un ruolo molto importante. Tutti associano la riabilitazione al lavoro, ma in realtà non si tratta solo di questo. La persona deve essere riabilitata socialmente, affinché possa vivere in modo adeguato imparando a gestire le cose di tutti i giorni, e quindi reinserita in tutti gli ambiti. Quello lavorativo è il più difficile da raggiungere. Quando tutto va bene, la persona è pronta per essere reinserita nel mondo del lavoro. Il problema della psichiatria sociale, però, è che non è così semplice fare andare bene tutto, anche perché vi sono malattie che hanno un effetto devastante sul paziente, lasciandolo spesso invalido. E lì bisogna allora stabilire chi fa che cosa, poiché non si tratta del lavoro di una persona, ma di un'équipe: l'assistente sociale si occupa di un certo aspetto, lo psicologo di un altro, l'educatore di un altro ancora e così via. La sintesi di questo lavoro è l'impegno su un caso, su un progetto, che però può anche fallire, perché questo è un campo dove il risultato non è matematico: due più due non fa necessariamente quattro; può anche fare cinque o tre. Esiste l'imprevisto».

Si parla quindi di socio-psichiatria pubblica. Vi sono altri aspetti caratterizzanti questo ambito?

«Vi è, ad esempio, quello di dover cercare di fare del proprio meglio con un budget ridotto. Ma questo è quanto avviene un po' in tutti i settori dove si spendono i soldi degli altri. Trattandosi di denaro pubblico, bisogna limitare la spesa. Ed è giusto che sia così.
Le domande giungono però in grande quantità e sono diversificate tra loro. E la gente, si capisce, non chiede risposte generali, ma risposte ai propri problemi, che tende a considerare come fossero i più importanti. Lo Stato, tuttavia, non può dare una risposta individualizzata. La risposta deve essere elastica e quindi mediata tra le esigenze del singolo e le emergenze di un determinato settore, sempre che vi siano delle emergenze.
Va comunque detto - uscendo un po' dal seminato - che la sanità, a volte, è una trappola, poiché più si creano servizi e più se ne crea il bisogno. Inoltre, il cittadino ha un po' la falsa impressione della gratuità del servizio pubblico...».

Dopo sedici anni alla Direzione del Settore Sopraceneri dell'Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC) riprende l'attività privata...

«Sono contento di poter rientrare nella psichiatria privata. Comunque, il mio lavoro non l'ho mai abbandonato veramente. L'attività di consultazione che svolgevo in precedenza ho continuato a svolgerla anche in ambito clinico, evidentemente sommata ai compiti di direzione. A fare la differenza è stata la collaborazione con colleghi di diversa esperienza, che mi ha permesso di ampliare gli orizzonti su modalità differenti di intervento.
Il confronto con altri mi ha aiutato a migliorare professionalmente: mi pongo le stesse domande che mi ponevo una volta, ma le risposte che riesco a darmi oggi sono più concrete».

Ci faccia un esempio...

«Ho sempre sostenuto che ogni lavoro psichiatrico e psicoterapeutico si basa sulla motivazione del paziente. È inutile che qualcuno si rivolga al medico perché glielo dice la moglie o per accontentare i genitori: deve avere una ragione sua importante. Grazie alla collaborazione con persone particolarmente versate, attive nel campo delle dipendenze, ho imparato a lavorare molto sulla motivazione.

Un altro aspetto di cui adesso ho grande consapevolezza è la necessità di avere un progetto. Bisogna stabilire con il paziente l'obiettivo da raggiungere, stilando un elenco delle risorse esistenti e abbandonando definitivamente quelle inesistenti. Ad esempio, se una persona pensa di poter cambiare il carattere dei genitori o del coniuge, bisogna aiutarla a capire che non è possibile. Le risorse devono quindi essere realistiche. Naturalmente, occorre poi valutare in che misura si vogliano mettere in campo le proprie risorse e stabilire una tempistica sulla base degli obiettivi prefissati. E solo a quel momento si può cominciare a lavorare, consapevoli comunque del fatto che a un certo punto bisogna arrivare a concretizzare. Quando non si riesce a concretizzare, ci si deve interrogare sul perché: magari le aspettative erano esagerate, oppure si era partiti con troppo ottimismo...
Forse, una volta ero meno attento a tali aspetti; oggi lo sono di più.

Spero di portare questa esperienza nel mio attuale lavoro. E spero anche di lavorare con qualcun altro, ma non so ancora bene in che termini... Vista la mia età, vi sono diversi ambiti che non voglio e non posso più affrontare: ad esempio, quello della psichiatria sociale nel senso pieno del termine. Se dovessi seguire un percorso terapeutico con un paziente che presenta fasi di agitazione importanti, dovrei mettere in conto vent'anni della mia vita... Meglio lasciare spazio ai giovani».

E quali sono invece gli ambiti che ha deciso di affrontare?

«Mi sono orientato verso campi dove la riabilitazione non è così importante e centrale. Penso in particolare a quello dei disturbi dell'ansia, ossia delle fobie, delle ossessioni e delle depressioni, spesso considerate come stranezze. In realtà si tratta di problemi, in quanto incidono negativamente sulla qualità di vita delle persone. Vi sono persone che per paura della contaminazione fanno sei bucati della stessa biancheria. Il risultato è che rovinano la macchina da lavare, rovinano la biancheria, inquinano maggiormente l'ambiente, perdono tempo e magari litigano con i vicini perché occupano sempre la lavanderia o con il coniuge perché consumano troppa elettricità. E il problema è che queste fobie peggiorano».

Da una decina d'anni lei si occupa anche di gioco problematico, di gioco d'azzardo...

«Nell'ambito del gioco problematico mi sono occupato molto e mi occupo tuttora di prevenzione, anche in collaborazione con la Federazione svizzera dei Casinò (FSC).
In Ticino esiste da alcuni anni una rete d'appoggio, di cui faccio parte, per i giocatori patologici e per i loro familiari. Essa si occupa di far conoscere al pubblico le varie procedure utili alle famiglie e agli operatori sociali per annunciare una situazione difficile al Casinò. Il problema delle famiglie spesso è proprio quello di perdere tempo in mosse sbagliate, non sapendo quali siano quelle giuste da fare. Per cui è necessario un lavoro di informazione in tal senso».

E i giocatori?

«I giocatori difficilmente chiedono aiuto; è tipico per quasi tutte le dipendenze...».

Per quanto riguarda la diffida e l'auto-diffida?

«Spesso il giocatore non è intenzionato ad auto-diffidarsi e la famiglia non può diffidarlo, poiché la normativa vigente in Svizzera non lo permette. Si tratta dunque di aiutare il singolo giocatore a prendere consapevolezza della sua situazione. Spesso ci riesce meglio il responsabile della concezione sociale dei singoli casinò, con i quali lavoriamo con una buona intesa. Diversa è la situazione per Campione, perché differenti sono le regole».

Dottor Carlevaro la ringrazio a nome della redazione di "ArgomenTI" e le auguro un buon lavoro...