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N1 - 2018

prospettiva

(foto Archivio CDE)

Autori: Oliver Broggini
Data: 15 gennaio 2018

"La lingua ci porta dritti nel cuore e nella mente di chi ci ha preceduto"

A colloquio con Franco Lurà, per oltre vent'anni a capo del Centro cantonale di dialettologia e di etnografia del Canton Ticino (CDE)

Giusto vent’anni dopo l’inizio della sua esperienza da direttore del Centro cantonale di dialettologia e di etnografia del Canton Ticino, Franco Lurà ha da qualche settimana salutato i propri collaboratori e concluso la propria carriera lavorativa. ArgomenTi lo ha incontrato a pochi giorni dal Natale, nel suo vecchio ufficio accanto alla Biblioteca cantonale di Bellinzona, per una chiacchierata sulle sue ricerche linguistiche, l’importanza della cultura in politica, la qualità dell’aria nel «suo» Mendrisiotto e molti altri argomenti – tra i quali la sfida di rimproverare qualcuno in dialetto ticinese, ma senza usare la parola «cichétt».

«In principi del sécol a gh’éra amò quai vécc che i diséva Denedaa, ma dòpo i a dicc domá Natál, la fèsta dal Bambín». Comincia così un libro dedicato alle tradizioni natalizie nella Svizzera italiana, uno degli ultimi che ha curato come direttore del CDE. Anche se questa intervista sarà letta solo dopo le feste, perché non ne approfittiamo per cominciare con una dimostrazione pratica del vostro lavoro?

«Comincio molto volentieri da quel libro, uscito poco più di un anno fa nella nostra collana Le Voci, anche perché ne sono state vendute più di mille copie: un risultato sorprendente, visto che la ricerca era già stata pubblicata nel Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana. Considero questo successo la dimostrazione che la gente si interessa sempre, quando gli argomenti affrontati le toccano il cuore».

Immagino che il lavoro di ricerca che avete svolto sia stato, come minimo, minuzioso.

«Eccome: un tema vasto come le tradizioni del Natale – un momento centrale nell’anno liturgico e civile delle nostre terre – imponeva una ricerca ampia, che si è rivelata davvero appassionante. Per prima cosa si è trattato di consultare la ricca documentazione bibliografica, quindi di selezionare le fonti, poi di passare al setaccio gli archivi e le pubblicazioni locali, e infine di procedere a uno spoglio delle principali riviste. A questo proposito, forse non molti lo immaginano, Illustrazione ticinese si rivela sempre una miniera di informazioni».

E una volta finita questa raccolta di documenti?

«A quel punto mancavano ancora il censimento delle trasmissioni radio e televisive, e l’analisi dei nostri archivi delle fonti orali, compresa la collezione personale di registrazioni che ho accumulato lungo tutta la mia carriera. Per concludere, abbiamo condotto anche qualche nuova inchiesta mirata fra la gente, rincorrendo alcuni degli spunti più promettenti».

Dopo tanti anni a frequentare questi temi, fra quel che ha scoperto delle nostre tradizioni natalizie c’è qualcosa che è riuscito a sorprenderla?

«Come ogni volta ho imparato moltissimo sulla mentalità della nostra gente, e – più nello specifico – ho avuto conferma delle molte sovrapposizioni fra fede cristiana, preesistenze pagane, credenze magiche e superstizione, come è evidente nel caso del Solstizio d’inverno. Se però mi chiede di citare solo una vicenda particolarmente sorprendente, sceglierei una tradizione piuttosto misteriosa legata alla mia regione, il Mendrisiotto».

Di cosa si tratta?

«Sfogliando alcuni miei appunti di decenni fa, ho trovato il rimando a una rivista sul folklore pubblicata all’inizio del ‘900. Vi di descriveva la tradizione natalizia di alcune famiglie di Stabio che, la notte della Vigilia, apparecchiavano una tavola a festa, con tutto il meglio che possedevano, nella convinzione che gli antenati sarebbero tornati per giudicare i vivi. La curiosità è che però non veniva servito nulla da mangiare, nella convinzione che i morti avessero “il loro cibo”».

Questo esempio lo ha già fatto emergere chiaramente, e del resto lei non si è mai stancato di ripeterlo: l’indagine sul dialetto «non è soltanto un lavoro di tipo linguistico».

«Non mi stanco, perché è un modo per ricordare anche a me stesso che occuparci della lingua significa arrivare dritti nel cuore e nella mente di chi ci ha preceduto su questa stessa terra. La dialettologia ticinese si è sviluppata attorno all’approccio che considera “le parole e le cose”, e permette di arrivare all’umanità; un’idea talmente forte da convincermi a non seguire la mia inclinazione matematica, che all’inizio mi aveva avvicinato alla linguistica soprattutto per approfondire il tema dei suoni».

E cosa è possibile scoprire, quando arriviamo nel cuore e nella mente di chi ci ha preceduto?

«È un’avventura affascinante, che non risparmia i colpi di scena: come quando scoprimmo che in valle Morobbia un poco di buono veniva chiamato “facia da Musolín”, e a dispetto di quanto avevamo creduto a prima vista ci rendemmo conto che l’uso dell’espressione era troppo antico per rimandare al Duce. Il modo di dire era invece ispirato a un famoso brigante calabrese, il “Re dell’Aspromonte” Giuseppe Musolino, finito a inizio Novecento sulla copertina della popolarissima Domenica del Corriere, sicuramente sfogliata anche nel Bellinzonese»

La lista delle attività svolte dal vostro ufficio è molto lunga, così come quella delle pubblicazioni che curate. Come potremmo riassumere la vostra attività in poche parole?

«L’Ufficio si muove in due direzioni: la prima è la ricerca linguistica, svolta soprattutto grazie ai finanziamenti federali, che ha la propria spina dorsale nel lavoro sul Vocabolario dei dialetti e da lì si dirama in molti altri filoni secondari. Il secondo campo di indagine è l’etnografia, che ci vede collaborare con gli 11 Musei regionali riconosciuti in Ticino, tutti gestiti secondo il modello del contratto di prestazione: una soluzione che, all’epoca della sua adozione, è stata una primizia a livello cantonale. Anche in questo campo curiamo alcune pubblicazioni: le ultime due sono state dedicate alle meridiane, gli orologi solari tradizionali, e alle segherie ad acqua».

Dovendo scegliere una sola fra le vostre pubblicazioni, c’è una sua dichiarazione secondo la quale il Repertorio italiano-dialetti è un progetto che «non ha parallelismi, non solo in Svizzera, ma nemmeno in ambito italofono in generale». Perché?

«La sua forza è di essere un “indice inverso”, che partendo dall’italiano mette in evidenza la varietà della lingua dialettale: è anche un caso unico, perché di solito lavori del genere sono svolti su scala molto limitata. Mi viene da sorridere perché l’ho usato di recente, quando un signore mi ha chiamato in ufficio per sapere come avrebbe potuto tradurre “rimprovero”, evitando di utilizzare il consueto “cichétt”. Ebbene, è bastato aprire il Repertorio per trovarmi davanti una pagina intera di variazioni sul tema!».

Fra le particolarità del vostro ufficio c’è anche un laboratorio di restauro con il suo impianto «Thermo Lignum», che permette la disinfestazione ecologica di tessuti e oggetti in legno. Può spiegarci di cosa si tratta?

«Purtroppo è un servizio ancora poco noto, che per diverso tempo è stato anche unico a livello svizzero e funziona egregiamente grazie alla perizia del responsabile Corrado Melchioretto. Si tratta di una camera ecologica che lavora attraverso variazioni di umidità e temperatura, fino a circa 55 gradi centigradi, che uccide non solo gli insetti ma anche larve e uova. Al termine del trattamento l’oggetto è risanato al 100%, e può essere subito ricollocato in casa visto che non è stato trattato con veleni di nessun genere. La cosa interessante è che è a disposizione dei privati, come ben sanno molti restauratori ticinesi e anche il Canton Grigioni, che tempo fa ci ha affidato tutta la sua collezione di cassapanche».

Non è un pensiero simpatico ma non sarebbe giusto ignorarlo: cosa replica a chi è convinto che un lavoro come quello svolto al CDE sia uno spreco di risorse, o al massimo una lodevole battaglia persa, un lusso anacronistico nell’epoca della rivoluzione digitale?

«La risposte sono molte, e ruotano attorno alla convinzione che la Storia è maestra della vita, e che la conoscenza di come siamo arrivati allo stato di cose presenti sia uno strumento utile per la gestione di un Paese. È chiaro che nell’emergenza un pezzo di pane è più utile del Vocabolario dei dialetti, ma è altrettanto chiaro che questo orizzonte di sopravvivenza non è del dibattito al quale assistiamo oggi in Ticino. Purtroppo però le polemiche di questi anni sono sempre state legate a una scarsa conoscenza di ciò che facciamo; non a caso ho sempre invitato i nostri critici a incontrarmi o a farci visita, per verificare di cosa ci occupiamo. Alcuni di loro, anche autori di atti parlamentari talvolta dai toni molto duri, hanno accettato l’invito e ho l’impressione che si siano ricreduti».

Qualche giorno fa il «Tages Anzeiger» ha pubblicato il risultato di un’analisi informatica svolta sull’opera di due monumenti della letteratura elvetica del ‘900: Friedrich Glauser e Friedrich Dürrenmatt. Ne è emerso che il primo aveva un vocabolario di 11.024 parole e usava un punto esclamativo ogni mille; la frase più lunga del secondo conta 352 parole, contro una media di 18 nel suo capolavoro La promessa. Al di là della curiosità, lei ha idea di dove le nuove tecnologie porteranno le scienze umanistiche?

«L’avvento dell’informatica ha portato con sé grandi passi avanti, ad esempio nella catalogazione e nella redazione. C’è una potenza di calcolo che sarebbe sciocco non utilizzare, visto quanto rende più semplice il lavoro di ricerca. D’altra parte, non mi vergogno a dire che rimango un appassionato della carta, e non solo per la “serendipità”, il fascino di trovare per caso, fra le pagine, notizie inattese e nuove strade da percorrere col pensiero. Ci sono comunque ragioni strettamente tecniche per abbandonare precipitosamente il libro: è come un capitale depositato in banca, che non viene meno – perché al massimo le sue pagine ingialliscono. Per contro, ci sono già capitate amarissime sorprese con supporti di memoria digitali che – già dopo pochi anni! – si sono rivelati illeggibili a causa dell’evoluzione troppo rapida della tecnica».

Mi ha colpito leggere che, analizzando la lingua popolare della Svizzera italiana, emergerebbe il ritratto di un popolo «piuttosto brontolone, e facile alla critica». È vero?

«Non la metterei in termini così negativi. A me piace piuttosto pensare a noi come a un popolo arguto, attento, facile all’ironia e al dileggio – più che alla critica facile. È una questione di vivacità, del carattere di una società tradizionale che era molto più coesa di quella del giorno d’oggi. Un caso emblematico sono i soprannomi: anche quando ai nostri occhi potrebbero sembrare irrispettosi, erano un segno di frequentazione fra le persone, e spesso anche di affetto. Di questa attenzione verso l’altro, del resto, ci accorgiamo anche analizzando i complimenti, che nei nostri dialetti sono molto abbondanti».

A proposito di complimenti… Un altro tema particolarmente scottante, di questi tempi, sono i rapporti fra uomini e donne: possiamo dire che il lessico dialettale riflette una mentalità maschilista?

«Questo è fuori di dubbio, anche se – a guardare l’attualità – mi pare che il problema sia sopravvissuto al declino del dialetto. Ad ogni modo, dall’analisi linguistica la mentalità maschilista emerge spesso in maniera molto più sottile di quanto ci aspetteremmo; per esempio, nel detto “I vacch i sa ligan cui còrd, i dònn i sa ligan cui fiöö” non è significativo tanto il paragone con un animale, quanto l’idea che i figli siano prima di tutto uno strumento di condizionamento delle donne».

«Sono fermamente convinto che in qualsiasi campo una visione umanistica contribuisce ad avere un approccio più completo ai problemi, permettendo non di rado di trovare chiavi di lettura diverse, che possono portare a soluzioni meno tecnicistiche e più equilibrate». È una citazione trovata sul web, che risale ai tempi della sua candidatura al Consiglio di Stato, nel 2007. La sottoscrive ancora?

«È un universale dell’analisi sociologica: un bagaglio di sensibilità acquisito con lo studio mette a disposizione dell’uomo strumenti utili per comportarsi meglio. Per quanto riguarda il mio campo di studio, per esempio approfondire le vicende dei nostri antenati ci può essere d’aiuto per guardare con altri occhi a chi oggi è povero e decide di lasciare il proprio Paese per cercare fortuna altrove».

Restando per un momento ancora all’epoca della sua «discesa in campo» politica, lei sostenne anche l’esigenza di fare sentire una voce dal Mendrisiotto, regione che soprattutto in campo ambientale stava pagando «scelte politiche sciagurate». Dieci anni dopo, l’impressione è che i problemi non siano cambiati molto.

«Purtroppo si sono ulteriormente aggravati. Amo il Mendrisiotto, è la mia casa, ma sta diventando una terra di conquista dove l’interesse economico ha prevalso su ogni valore umano e ambientale. Il traffico insostenibile è sotto gli occhi di tutti, ma i comportamenti che lo promuovono non si stanno fermando; e anche se certe dinamiche sono inevitabili, almeno l’attenzione per la salute delle persone dovrebbe prevalere».

Si avvicina il momento dei saluti. Il CDE si avvia verso il traguardo dei vent’anni di esistenza: che eredità si sente di lasciare al suo successore?

«Il mio primo desiderio è che ci sia un successore… Ad ogni modo, una volta conclusa questa fase di stallo e garantita la continuità della direzione, mi piacerebbe che chi arriverà mantenesse l’attenzione per la conoscenza e lo studio delle nostre cose e continuasse a divulgare quanto viene scoperto all’interno di questo ufficio. Vorrei che il CDE non si ripiegasse su se stesso, ma anche di fronte a tempi difficili scegliesse sempre di rimanere un’entità aperta verso il Paese».

Franco Lurà è nato a Mendrisio, dove tuttora vive. Appassionato dello studio dei dialetti e delle tradizioni popolari, ha avuto la fortuna di farne la sua professione, dapprima come collaboratore e poi come direttore del Centro di dialettologia e di etnografia della Svizzera italiana. Ha lavorato pure presso la RSI come redattore e conduttore di alcune trasmissioni, fra cui in particolare Cantiamo Sottovoce e Alla ricerca del dialetto perduto. Alle parlate e alle tradizioni della Svizzera italiana ha dedicato diverse conferenze e pubblicazioni di carattere scientifico e divulgativo.