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N1 - 2019

elezione

L'arte del beat

Intervista ad Andrea Spinedi, in arte Lazy Marf, dipendente dell’Amministrazione cantonale di giorno e dj-producer nel tempo libero

Autori: Virginia Agostinetti
Autori foto: Elizabeth La Rosa
Data: 11 marzo 2019

Andrea Spinedi, 35enne di Monte Carasso, ci parla della sua passione musicale e di come è arrivato a vincere, lo scorso 17 febbraio a Los Angeles, il “Beat Cinema 12TH Annual Beat Battle”, un contest internazionale di musica elettronica strumentale.

Lazy Marf, cominciamo a capire di cosa ti occupi. Nel tuo tempo libero sei beatmaker: è difficile nella vita di tutti i giorni spiegare di che genere si tratta?

«Sì, non è facile. Per dare un’idea, dico sempre che – se prima facevo rap – adesso faccio la stessa cosa ma senza la parte cantata. Ciò che resta è la “base strumentale”, che è proprio quello di cui mi occupo io.»

Quindi è un genere senza testi, composto unicamente da suoni musicali?

«In generale sì, ma non per forza. A volte inserisco anche campioni di canzoni a cappella degli anni ’90, specialmente da brani RnB. La beat music è un genere molto libero, ma quando raggiungi un certo livello sei costretto a prendere in considerazione determinati limiti legali.»

«A Los Angeles eravamo 20 concorrenti, ma io ero l'unico europeo»

Parliamo un po’ della tua recente esperienza negli Stati Uniti. Il 17 febbraio hai partecipato al “Beat Cinema 12th Annual Beat Battle” a Los Angeles, una battaglia in cui musicisti come te si sono sfidati a colpi di “beat” (le fotografie provengono dal canale Instagram di Sleepy Shutter, @sleepyshutter; il video della gara è disponibile su Youtube). Parlaci un po’ dell’evento.

«Il contest si svolgeva nella Chewing Foil Gallery, un centro culturale di Los Angeles. Lo spazio collabora con i promotori dell’evento, ovvero il collettivo Beat Cinema, e insieme danno vita al contest che si svolge ogni anno in una location diversa.»

Ma come funziona in pratica una “beat battle”?

«I partecipanti si portano da casa le proprie produzioni migliori. Ognuno ha la propria attrezzatura, ma in linea di massima sul palco sono sufficienti il proprio computer e il proprio controller: la console che ti permette di “controllare”, appunto, tutti gli effetti musicali, far partire i pezzi al momento giusto, e così via. Poi sul palco ognuno si esibisce nella sua forma, ognuno con il suo stile personale.»

Una volta, sul palco cosa succede?

«Eravamo 20 concorrenti, selezionati tra più di 100 aspiranti, e io ero l’unico europeo in gara. Nel primo round (a partire dal minuto 00:36:55 nel video, NdR) eravamo divisi in gruppi di 5 persone, che salivano a turno sul palco. Ogni partecipante aveva due minuti di esibizione per guadagnarsi un posto al secondo round (10 concorrenti) e infine alla finale (gli ultimi cinque).»

Nel video ti si vede ai minuti 01:22:17 e 01:59:25 mentre ti giochi queste due fasi; il verdetto è in mano alla giuria, con la premiazione visibile al minuto 02:29:36. Ma in tutto questo, il pubblico che ruolo ha?

«Il pubblico si esalta, oppure fischia, però non vota come magari succede in altri tipi di contest. Quella sera il pubblico era particolarmente entusiasta. C’è da dire che sul palco, gli artisti erano tutti veramente forti, anche perché a Los Angeles la beat music è un genere molto seguito: è un po’ la mecca per noi beatmaker. Tornando al pubblico, era gasato dalla mia musica e anche dal fatto che io venissi da così lontano.»

«Non me lo aspettavo proprio: un ragazzo che arriva da un piccolo paese della Svizzera e vince una competizione del genere, contro avversari di quel calibro. Ero davvero impreparato»

Quindi sei arrivato in finale, portandoti a casa la vittoria. Te lo saresti mai aspettato?

«Per me era già una vittoria essere lì, l’unica cosa che mi premeva era fare bella figura. Passato il primo turno, avevo già abbastanza ragioni per festeggiare ma quando ho passato anche il secondo, ho iniziato a prendere la cosa sul serio. Se ero arrivato fino a lì, voleva dire che avevo possibilità di vincere anche se tra i concorrenti c’erano nomi grossi del genere: Gypsy Mamba, Nicklaus Gray e Jillesque. Credo che tutti si aspettassero loro tre sul podio. Eppure mi sono convinto che potevo vincere – che dovevo vincere – e che quello che avevo preparato, lo dovevo fare al meglio.»

Quindi è stata una grande sorpresa anche per te. Come hai reagito?

«Mi sono messo le mani in faccia. Non ci credevo. Ci ho messo un attimo a realizzare tutto, salire sul palco e fare un discorso. Non me lo aspettavo proprio: un ragazzo che arriva da un piccolo paese della Svizzera e vince una competizione del genere, contro avversari di quel calibro. Ero davvero impreparato ma, dopo che il pubblico mi ha gasato, sono riuscito a ringraziare la mia compagna Nora, presente in sala. Anche lei, era emozionatissima.»

Quali motivazioni ti ha dato la giuria?

«Parlando con i giudici alla fine dell’evento, uno di loro mi ha confessato di essere rimasto impressionato dalla quantità di suoni che ho inserito nella mia performance, dalla diversità dei beat che variavano di stile e di velocità. Penso che l’aspetto che mi abbia premiato sia stato proprio la varietà della mia produzione. L’eterogeneità è una caratteristica che cerco di sviluppare costantemente nel mio lavoro, anche perché mi annoierei a dedicarmi unicamente a uno stile fisso.»

Che effetti ha avuto la vittoria sulla tua notorietà?

«Sui social, mi sono accorto che il numero di follower è aumentato parecchio. La pagina di Beat Cinema ha pubblicato la vittoria e questo mi ha fatto parecchia pubblicità. Inoltre, mi è stato chiesto di fare un dj set di 45 minuti per la Obey Clothing, che collabora con Beat Cinema e si occupa di promuovere artisti attivi nel campo musicale. Ho partecipato al contest con l’intenzione di farmi notare: volevo che si accorgessero di me. E quale migliore pubblicità della vittoria stessa?»

«Non c’è un giorno in cui non vado in studio almeno un’ora»

Lasciamo da parte Lazy Marf e parliamo ora di Andrea, dipendente dell’Amministrazione cantonale: di cosa ti occupi?

«Lavoro per l’Area dei servizi amministrativi e gestione del web, più precisamente mi occupo della parte visiva dei siti web dell’Amministrazione cantonale.»

Quanto è difficile coniugare una professione artistica con un lavoro del genere?

«Abito a Monte Carasso, a nove minuti da Palazzo delle Orsoline. Essere così vicino mi garantisce il tempo e le energie per dedicarmi alla musica anche in settimana. La mia ragazza mi dà molto sostegno in questo. Inoltre, adesso che ho iniziato a lavorare all’80%, ho a disposizione un giorno in più per dedicarmi alla musica. È comunque un impegno: non c’è un giorno in cui non vado in studio almeno un’ora, nei fine settimana o la sera. Anche se è molto importante saper organizzare il proprio tempo.»

Il tuo studio è quindi un secondo luogo di lavoro. È importante avere uno spazio separato per dedicarti alla tua passione?

«Certo, ti permette di fare pulizia mentale. Io ho la fortuna di avere lo studio in casa, in mansarda: è importante che ci sia uno spazio riservato a quello, perché così puoi staccare dal resto. Inoltre, da quando ho lo studio a casa, mi accorgo che sono molto più produttivo, perché magari mi sveglio la mattina alle 8 e posso mettermi subito a lavorare.»

Qual è la parte che preferisci del processo creativo?

«Raccogliere le idee è stimolante. Io ho un cane, si chiama Denver, e quando lo porto a passeggio mi vengono sempre un sacco di idee – parto sempre da una progressione di accordi e cerco di riprodurla con il sintetizzatore una volta in studio. Da lì parte tutto: comincio a suonarci sopra la batteria, il basso, le tastiere, gli effetti, il mixaggio. Nell’elettronica in generale devi essere un polistrumentista e, anche per questo, ora mi piacerebbe collaborare con altri musicisti. Anche perché, nel processo creativo, se si collabora le teste sono due ma l’effetto è esponenziale. Sono già d’accordo con dei ragazzi di Los Angeles che hanno partecipato allo show: diversi di loro mi sono piaciuti molto e vorrei mischiare i loro suoni con il mio, magari mandandogli delle bozze e vedere come le sviluppano. Tutto questo grazie alla musica digitale che ti permette di collaborare a distanza.»

«Quello che faccio oggi è sempre un po’ legato al jazz e al funk»

Ma da dove nasce questa tua passione per la musica, e per il beat in particolare?

«La mia passione per la musica è iniziata già da ragazzino. Mi ricordo che creavo compilation per i miei cugini, e c’era già questa mia inclinazione nel mischiare le cose. Crescendo, mi sono avvicinato alla cultura hip hop tramite amicizie, fino a che questo mondo non mi ha conquistato. Ho fatto il dj, poi ho cominciato anche a scrivere testi rap. Negli anni ’90 andava tantissimo. All’epoca ti compravi il vinile dove trovavi parte cantata, strumentale e a cappella. A un certo punto ci siamo stufati di usare le basi degli altri per scriverci sopra i nostri testi, volevamo allontanarci dalla “scuola americana” che negli anni ’90 campionava tantissimo il funk e il jazz. È nato quindi il desiderio di fare una cosa nostra, europea, magari campionando da Lucio Dalla, per esempio. E da questo desiderio deriva la mia passione per il beat.»

Ti spinge ancora questa voglia di originalità?

«Quello che faccio oggi è sempre un po’ legato al jazz e al funk, ma cerco di rimanere sul continente europeo. Per esempio, seguo tantissimo la nuova generazione di jazz londinese, tipo Kamaal Williams, Poppy Ajudha, Mansur Brown. Anche il funk è stato ripreso da molti artisti, come i Nu Guinea che hanno suonato poche settimane fa al Fresh Festival di Lugano. Ecco, io cerco di trasmettere questo discorso e spero di poterlo fare sempre meglio in futuro.»