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News extra

Autori: Mattia Bertoldi
Data: 12 settembre 2018

La caccia, tra cuore e testa

A colloquio con Tiziano Robbiani, cacciatore e dipendente della Sezione della circolazione da oltre trent’anni

«La caccia? Una passione, certo, ma per me è anche qualcosa di più». Parola di Tiziano Robbiani, che il prossimo anno festeggerà i 35 anni alle dipendenze della Sezione della circolazione. I colleghi lo conoscono ormai bene, e sanno che le prime due settimane di settembre – cascasse il mondo – sono dedicate all’attività venatoria.

Una passione tramandata dalla famiglia?

«Come capita spesso, sì. Mio padre e i miei zii cacciavano, così io li seguivo già da ragazzino. Mi ero appassionato alla caccia bassa perché sono originario del Mendrisiotto: fagiano del piano, lepri… Un tempo, la caccia alta era prerogativa di chi abitava in Alto Ticino. Ma con il passare del tempo mi sono interessato anche a questa, e oggi la mia stagione venatoria copre cinque-sei mesi, da luglio (quando si iniziano a perlustrare le montagne con il binocolo) a gennaio, con la caccia al cinghiale. Ogni tanto mi metto a disposizione per la caccia selettiva e do il mio contributo».

In che senso “dare un contributo”?

«Come detto, io sono originario del Mendrisiotto e conosco bene i danni che certi animali selvatici possono fare alle colture e ai vigneti. Pensiamo al cinghiale, un tempo inesistente: chi è il suo predatore naturale? Forse la volpe, ma spesso la differenza di stazza è troppo grande. L’aquila e il lupo, d’accordo, ma sono animali troppo poco presenti per contrastare la crescita di questa come anche delle altre specie. Come cacciatore, sento anche il dovere di mantenere stabili i contingenti che potrebbero comportare un pericolo per l’uomo, sempre secondo quanto prescrive la legge. Pensiamo ai boschi di protezione in alcune zone del Sopraceneri, indeboliti dagli ungulati: cosa succederebbe in caso di slavina?»

I cacciatori, quindi, sono chiamati a tenere in equilibrio l’ecosistema…

«Esatto, e mi spiace sentirmi contestato in quanto cacciatore. So che ognuno ha la propria idea, ma quando si pensa a una persona con il fucile sulle nostre strade, non bisognerebbe pensare solo al fatto che uccide un animale: l’attività che svolge sul territorio prevede diversi benefici sul medio-lungo termine. Forse bisognerebbe lavorare di più sulla sensibilizzazione, anche nelle scuole».

Alcuni pensano che la caccia selettiva (la quale concede giorni supplementari di caccia in determinate zone, secondo un piano d’abbattimento preordinato) sia paragonabile a un tiro a bersaglio…

«Ma non è così. Non è semplice cacciare in un bosco fitto e tirare a una preda in corsa, così come non lo è individuare con tempestività sesso, età e stato di salute dell’animale. Io la patente di caccia l’ho staccata nel 1981 fa e gli esami erano già complicati, ma mi dicono che oggi sono ancora più approfonditi. Insomma, non basta avere un fucile per uscire di casa e permettersi di sparare a un cervo o a un camoscio. La caccia selettiva richiede testa, e non è così scontata come sembra».

Parliamo allora di caccia alta, che nelle prime settimane di settembre coinvolge centinaia di cacciatori.

«Ora che dispongo di un rustico poco sopra Carì, le cose sono più semplici e le trasferte tra il Sottoceneri e il Sopraceneri limitate. Al di là della caccia, tuttavia, camminare è il mio sport e amo essere immerso nella natura. Apprezzo anche lo spirito di comunione che si avverte tra i cacciatori; ho conosciuto in questo contesto persone che forse non avrei mai incontrato. E anche quando ho dovuto saltare una stagione – la mia unica stagione, dal 1981 a oggi – perché mi ero fratturato la tibia, sono comunque venuto al rustico: cucinavo per gli altri e attendevo il loro ritorno per sentire com’era andata la giornata».

Ci sono dei riti che l’accompagnano all’inizio di ogni stagione di caccia?

«Niente di particolare, ma in generale ho grande considerazione dell’arma. Mi piace tenerla pulita e in ordine, per limitare al minimo il rischio che possa tradirmi sul più bello. E mi spiace quando si bagna. Sono insomma affezionato al mio Blaser, che mi accompagna da più di vent’anni.»

Cosa invece le piace meno della caccia alta?

«In molti casi è una caccia che richiede pazienza e capacità di resistere al freddo. Quando a inizio settembre cammini a più di 2000 metri di altitudine e il termometro segna -1 grado… Ecco, diciamo che più di due ore fermo non so stare, e quindi preferisco la caccia al camoscio (che prevede più movimento) rispetto a quella al cervo, basata sull’appostamento. Anche i recuperi della preda, con gli anni, si fanno sempre più difficili e faticosi, al punto che un paio di volte ho preferito non sparare perché ritenevo la zona troppo impervia. Se devo scegliere, insomma, la caccia bassa è sempre al primo posto.»

Come mai?

«Perché è una caccia condivisa con il cane. Io ho dei setter inglesi, e quando li vedo lavorare bene sul terreno, individuare le tracce della preda e mettersi in posizione di ferma, è una grossa soddisfazione. E non importa se quel giorno si cattura o no la preda: un cacciatore si può ritenere felice anche così».