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News extra

Autori: Mattia Bertoldi
Data: 22 giugno 2017

«Spesso è il cuore a fare la differenza»

Un mese fa l’agente della Polizia cantonale Ramón Berta è stato premiato per aver salvato una vita umana, mettendo a repentaglio la sua. Ecco cosa lo ha spinto a farlo

Capelli bruni e corti, sorriso immediato e grande affabilità: si presenta così Ramón Berta, 42 anni di Lugano, al tavolo di un bar assolato di fronte a Palazzo delle Orsoline. Lo scorso maggio è stato convocato a Berna dalla fondazione Carnegie per ricevere un’onorificenza speciale, riservata a chi ha salvato la vita di altre persone senza esitazione alcuna: nel suo caso, quella di un parapendista tedesco di 76 anni che atterrò per sbaglio sulle acque del Verbano, rischiando così di affogare. Era il 10 luglio 2016. «Quasi un anno fa», ci racconta, «e quando ho ricevuto l’invito della fondazione Carnegie, ho faticato un po’ a realizzare che mi chiamavano proprio per quell’intervento. Inizialmente pensavo fosse uno scherzo, poi mi sono informato meglio sullo scopo dell’ente e ho capito che era tutto vero».

Il 19 maggio 2017 sei quindi andato a Berna per ricevere un premio attribuito quest’anno ad altre 20 persone soltanto. Tra di loro un altro italofono, Elio Cappelletti, il 64enne comasco che lo scorso settembre salvò la vita all'assistente di volo di un Super Puma dell'esercito svizzero precipitato sul San Gottardo.

«E mi viene ancora la pelle d’oca, a pensarci. C’era lui, ma anche un altro signore di poco più di 60 anni capace di salvare la vita a tre persone, di cui una disabile. E un ragazzino di 13 anni, in grado di togliere dall’acqua una persona che altrimenti sarebbe affogata. Una bellissima giornata che ho voluto trascorrere con il collega Paolo Pigazzini, che quel giorno pattugliava con me il Lago Maggiore».

La notizia del premio a un ticinese, perlopiù della Polizia cantonale, ha fatto il giro dei media…

«Altroché. Il martedì mattina in cui la notizia è stata resa pubblico, il mio cellulare ha iniziato a vibrare alle cinque del mattino: un messaggio del mio superiore, che mi diceva di guardare il giornale. Poi le e-mail, le telefonate, WhatsApp… All’inizio ero anche un po’ imbarazzato, soprattutto durante le interviste. »

Quali parole ti hanno reso più fiero?

«Diciamo che l’orgoglio di mia madre mi ha scaldato il cuore: è sempre bello quando un figlio riesce a rendere fiero un proprio genitore. È stato anche bello leggere il messaggio di stima del Consigliere di Stato Norman Gobbi su Facebook e poi mi hanno scritto anche delle vecchie conoscenze, che non sentivo da anni ma che hanno voluto esprimermi i loro complimenti per il coraggio e l’altruismo che ho sempre dimostrato nella vita e sul lavoro. Sapere che persone così lontane ti hanno sempre stimato e ancora oggi ti stimano ti rende felice».

Quali, invece, le cose che ti sono piaciute meno?

«Ci sono state anche alcune critiche, persone che si chiedevano perché hanno premiato solo me e non altri soccorritori professionisti che salvano vite umane tutti i giorni. Lo capisco, me lo sono chiesto anch’io. Io lo considero però anche un premio attribuito non solo alla Polizia cantonale ticinese, ma a tutti quegli enti di soccorso che collaborano quotidianamente per dare il meglio. Nel caso di quel 10 luglio 2016, per esempio, è stato impressionante vedere come tutti siamo riusciti a lavorare insieme, nonostante appartenessimo a corpi diversi».

Un vecchio motto recita: l’unione fa la forza…

«Ed è una grande verità, ma bisogna anche ricordare che alla base di tutto ci sono delle persone. Se uno è volenteroso sul posto di lavoro, se ha voglia di dare una mano e rendersi utile, renderà tutto il meccanismo più fluido e rapido – anche in caso di emergenza. Penso che sia un’attitudine necessaria anche fuori servizio e vale anche per i civili: quando è successo quell’incidente sulle acque del Verbano, mi ha stupito vedere quante persone a riva stessero riprendendo tutto con il cellulare. Capisco che ci si possa sentire impotenti di fronte a scene del genere, ma spesso colgo molta indifferenza negli occhi delle persone che osservano un incidente (anche banale, per esempio una caduta) e non fanno nulla per aiutare, limitandosi a scattare foto o girare filmati».

Che cosa ci vuole, quindi?

«Io credo che tutti noi siamo responsabili della nostra sicurezza e sono fiero di essere cresciuto in un Paese che onora chi si è speso così tanto per gli altri e può vantare tra le forze dell’ordine professionisti caratterizzati da ottima formazione, dotati di tutti gli strumenti per intervenire in maniera tempestiva. Quando poi uno ha pochi secondi per analizzare la situazione e calibrare un intervento, talvolta in situazioni disperate, allora è il cuore a fare la differenza. La voglia di fare un ulteriore passo. Il desiderio di andare oltre. Molte persone mi hanno rivelato che loro, al mio posto, forse non avrebbero fatto la stessa cosa. Non saprei dire se è vero, uno può mettersi alla prova solo quando si trova in una situazione del genere. Per me è stato istintivo, ed è per questo che non mi sento più speciale di altri. È venuto tutto da dentro».

Che ricordo ti porti dentro di quel giorno?

«Un agente di polizia, dopo un intervento, tende a tornare più e più volte sull’accaduto: durante la preparazione dei rapporti e dei verbali, ovviamente, ma anche al di fuori del lavoro. Nel mio caso, sono soprattutto i volti a rimanermi impressi: quelli di persone che in seguito a incidenti non ce l’hanno fatta e che ho visto morire tra le lamiere, per esempio. Nel caso del parapendista tedesco sulle acque del Verbano, fortunatamente, le cose sono andate meglio. Ma se ripenso a Berna e all’incontro con quel ragazzino e quel signore di 60 anni… (si indica il braccio) La vedi la pelle d’oca?»

L’intervista si conclude così. Ramón Berta lascia il tavolo di un bar assolato di fronte a Palazzo delle Orsoline e torna al suo posto di lavoro a Giubiasco. Sono sedici anni che serve la Polizia cantonale. E ha lo spirito di chi lo farà per molti altri anni ancora.