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Jonathan Van Lamsweerde

In giro per il mondo per dare voce alle storie

Professione
regista e documentarista

Anno di nascita
1986

Comune d'origine
Sessa

Fuori Cantone dal
2013

Dove
Burkina Faso, Ghana, Benin, Togo e Stati Uniti

Attuale residenza
New York

Jonathan Van Lamsweerde ha studiato regia cinematografica all’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano. Una volta preso il diploma, è tornato in Ticino per lavorare come regista per cinque anni alla RSI. Jonathan si è poi preso del tempo per svolgere il servizio civile in Africa occidentale, tra Burkina Faso, Ghana, Benin e Togo. Dopodiché, si è traferito definitivamente negli Stati Uniti, più precisamente a New York, dove negli ultimi cinque anni ha lavorato prima come freelance e poi come dipendente per un’associazione non profit. Ora invece è a caccia di una nuova avventura.

Come mai hai deciso di andare via dal Ticino?
«Lavorare alla RSI è stata una grande opportunità: era un bellissimo lavoro ed è stata una grande palestra, ma a un certo punto ho avuto il bisogno di confrontarmi con delle realtà professionali diverse, perché - per quello che concerne il mio lavoro - in Ticino la RSI è un po’ il tetto. Avevo voglia di viaggiare, di vedere cose nuove e allo stesso tempo non avevo più voglia di stare in studio: mi sono reso conto che quello che stavo facendo a 25 anni, lo potevo fare anche a 60. Ho fatto due calcoli e mi sono detto: "Se rimango, fra trent’anni mi ritroverò a fare una cosa molto simile".»

Perché hai deciso di andare negli Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti mi hanno sempre affascinato. È successo poi che nel periodo in cui mi sono trovato a fare servizio civile ho conosciuto anche la mia ex moglie, cittadina statunitense. Abbiamo quindi deciso di spostarci insieme a New York e di iniziare insieme questa avventura. È stata un po’ una tempesta perfetta; in altre circostanze forse non sarebbe stato così semplice andar via.»

È stato difficile ottenere un visto per gli Stati Uniti?
«Il percorso burocratico non è dei più facili: è abbastanza ostico e non troppo diverso da quello svizzero. Con il matrimonio è stato nettamente più facile: ci ho messo comunque circa un anno, ma alla fine l’ho ottenuto. Adesso sono negli Stati Uniti da quasi cinque anni e ho iniziato qualche settimana fa il processo per diventare cittadino americano.»

Progetti di rimanere negli Stati Uniti anche in futuro?
«Adesso sono stabile qui, ma a me manca un po’ la terra sotto i piedi. Potrebbe succedere qualcosa il mese prossimo che mi spinge a spostarmi, e lo farei senza troppi problemi.»

A questo proposito, ti piacerebbe tornare in Ticino? 
«È possibile che si apra qualche opportunità anche in Ticino e quindi potrei ipoteticamente dividermi un po’ di più tra gli Stati Uniti e la Svizzera. Devo dire che questa cosa non mi dispiacerebbe soprattutto perché, a causa del coronavirus, non tornavo in Ticino da due anni. Ora sono tornato per le vacanze e ammetto che mi mancava parecchio, me ne rendo conto solo ora.»

Lavori in un ambito che ti permette di essere flessibile da questo punto di vista…
«Esatto. Quando lavoravo come regista-documentarista a tempo pieno per la Tzu Chi Foundation - una fondazione buddista non profit di Taiwan con sede a New York, che si occupa di catastrofi, lavoro di beneficienza, educazione nei paesi del Terzo mondo - ho viaggiato molto: sono stato ad Haiti, Porto Rico, Africa centrale, Istanbul e in molti altri posti.»

La pandemia ha influito sul tuo lavoro?
«Il coronavirus ci ha un po’ fermati: la situazione è stata molto intensa ma fortunatamente la non profit per cui lavoravo si è occupata anche della situazione pandemica, quindi ho avuto l’opportunità di uscire di casa. È stato comunque triste perché mi spostavo dalla mia abitazione alle cure intense degli ospedali… C’era un po’ di paura, ma per lo meno uscivo per fare dei servizi. A un certo punto ho però capito che non si sarebbe più potuto viaggiare come prima e quindi mi sono nuovamente stancato: volevo vedere realtà nuove e confrontarmi con persone e storie di diverso tipo, anche per superare i miei limiti.»

Come hai vissuto generalmente la pandemia negli Stati Uniti?
«Posso dire che, generalmente, la situazione qui è stata difficile soprattutto per via del confinamento, ma anche un po’ per il confronto con il Ticino: mentre qui si poteva uscire a fare jogging e poi bisognava tornare immediatamente a casa, in Ticino le persone andavano a fare aperitivo e a godersi l’estate. Ora invece, per essere negli Stati Uniti, penso di essere nel posto migliore per quel che riguarda la pandemia: le scuole stanno riaprendo, i casi rimangono bassi… speriamo bene.»

Che cosa ti manca di più del Ticino quando sei via?
«La prima cosa sono le persone: la famiglia e gli amici. La seconda cosa è la bellezza del territorio: anche se gli Stati Uniti sono un bellissimo posto, non è la stessa cosa e questo lo dicono anche i miei amici americani. Se io posto una foto a caso del Ticino, con un’angolazione a caso, rimangono tutti a bocca aperta. La terza cosa è il cibo: New York è un connubio culturale dove trovi cibo etnico di varie parti del mondo, e questo è fantastico. Il cibo italiano però lo evito come la peste, mentre per trovare un pezzo di raclette autentica paghi una marea di soldi.»

Professionalmente parlando, se paragoni la realtà lavorativa ticinese con quella di New York – che sappiamo essere una realtà molto diversa – vedi tante differenze?
«Una cosa che ho notato è che New York è una realtà estremamente capitalista e questo ha dei pro e dei contro: è molto meritocratica ma anche brutale, perché se hai delle buone performance al lavoro, allora vai avanti; se non le hai, vai a casa. In Ticino temo di aver visto un po’ il contrario: se hai delle buone performance o non le hai, ti tengono comunque. Questo fa sì che la qualità di alcune cose faccia fatica ad aumentare, anche se da una parte non è male, perché è un approccio molto più umano. Purtroppo però, in questo modo, si rischia di non oltrepassare alcuni limiti della creatività, mentre quando in ballo c’è la sopravvivenza, fai del tuo meglio…»

(Intervista raccolta nell'agosto 2021 da Ivana Zecevic e Alice Della Bruna)

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