Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana

189 ESAMINÁ éSCA ronico), esaminè (Ludiano, Lev., SottoP.), esaminèe (BrioneVerz., GerraGamb.), esaminèr (SopraP.), esgia- minè (Chironico), ṡaminaa (Gordevio), ṡeminè (Gior- nico), żaminá (Grancia). 1. Esaminè omprogètt, om lavór , valutare atten- tamente un progetto, un lavoro (Giornico), esa- miná l’òr , caratare l’oro (Balerna), żámina n pó ra tu coscénza e p tü ra finiré da parlá nscí , esamina un po’ la tua coscienza e poi la finirai di parlare così (Grancia); – chèll da esaminaa , quello da sot- toporre alla prova (scolastica o professionale): l’e- saminando (Cavigliano); – come tecnicismo giu- ridico, esaminaa i testemòni , interrogare i testimoni (Brissago). 2. Derivati esaminadóo , esaminaduu ; asaminaduu (Line- scio), esaminadó (Dalpe, Palagnedra), esamina- dóu (Giornico), esgiaminadóu (Chironico) s.m. Esaminatore. Dagli it. esaminare e esaminatore [1]. Il verbo ha co- me allotropo popolare  sminá ‘guardare, osservare con attenzione, scrutare’. B i b l.: C HERUB . 2.72. [1] REW 2937, S ALVIONI -F ARé , Postille 2937, DEI 2. 1529, DELI 2 533, LEI, E5.921-933; B ATTAGLIA 5.289-292. Galfetti esaminadóo  esaminá ÉSCA 1 (ška) s.f., ÉSCH (šk) s.m. Esca per ac- cendere il fuoco o per dare fuoco alla polvere da sparo. V a r.: femm. ésca , èsca ; arésca (Rivera, Malc., Son- vico), èhcra (Malvaglia), éisca (SopraP.), ésa (Ludiano, Calpiogna, Airolo, circ. Maggia, Loc.), èsa (Biasca, VMa., Loc.), èse (Sementina,Montecarasso), ésche (Me- deglia, Robasacco, Breno), èsche (Montecarasso, Gerra Gamb.), és’cia (Cerentino), ès’cia (Gordevio), éstia (Mo- sogno), isca (Augio), lésca (Lodrino, Personico, Gior- nico, Rossura, Faido, Intragna, Brissago, Losone, Piaz- zogna, Corticiasca, Rovio, Riva S. Vitale), lésa (Lev., Menzonio, Cavergno), lèsca (Vairano), lés’ce (Chironi- co), lésche (Robasacco, Gnosca), lèsche (Gerra Gamb.), lisca (Ascona, Locarno, circ. Sonvico, Lugano, Mendr., Roveredo Grig.), lische (Cavagnago), lischi (Gorduno), résca (Giubiasco, Lug.), résche (Bironico, Fescoggia, Breno); – masch. ésch (Soglio [1]). 1. Esca per accendere il fuoco 1.1. Prima che si affermasse l’utilizzo dei fiam- miferi (a Lugano se ne attesta la comparsa negli anni 1840-1841), si usava accendere il fuoco con l’acciarino ( azalín ), la pietra focaia e l’esca, una pratica che i corripondenti del VSI ben ram- mentavano per conoscenza diretta, o indiretta- mente attraverso i racconti e le testimonianze di genitori e anziani, ma che confermavano essere già decaduta alla fine dell’Ottocento: stuzzacóra i durèva r’ésa a pizzè ul fö , molto tempo fa usava- no l’esca per accendere il fuoco (Ludiano), na vól- ta i pizzava ro fögh cora résca, cor azzalín e ra pré- da , una volta accendevano il fuoco con l’esca, con l’acciarino e con la pietra focaia (Sonvico). Que- sto sistema continuò tuttavia a essere sporadica- mente utilizzato, a cavallo del Novecento, soprat- tutto in montagna da pastori e cacciatori, oppure da qualche fumatore che se ne serviva ancora per accendersi la pipa, preferendolo ai fiammiferi quando c’era forte vento. L’esca d’accensione era in genere ricavata dal carpoforo coriaceo dei funghi polipori che cresco- no sul fusto di alcuni alberi, tanto che il termine è passato per metonimia a designare il fungo cau- licolo stesso: arbo con la lésche , albero con il poli- poro (Gnosca), la lésche di nós , poliporo dei noci (Gnosca), résche de fò , poliporo del faggio (Fe- scoggia), ésca del morón , poliporo del gelso (Gan- dria), el dörbi l’é r’èsca ch’a végn fòra di faísc , il dör- bi è l’agarico che cresce sui faggi (Vogorno [2]). Oltre ad accendersi facilmente a contatto con le scintille prodotte dall’acciarino, l’esca doveva avere una lenta combustione, così da permettere, in caso di bisogno, di trasportare il fuoco per lun- ghi tratti, cfr. al par. 3.; per questi motivi essa ve- niva accuratamente preparata lasciando seccare il fungo corticicolo sul camino, per poi assotti- gliarlo, rendendolo soffice e poroso, mediante battitura (Sigirino); qua e là si usava pure tagliar- lo in fette dello spessore di mezzo centimetro, le quali, una volta essiccate, venivano pestate con un mazzuolo di legno (Isone, Chironico), magari dopo averle fatte ammorbidire nel ranno (Calpio- gna), ricavandone dei fogli sottili più facilmente incendiabili. Per aumentarne l’infiammabilità si soleva impiastrare le esche con dello zolfo o im- mergerle in una soluzione calda di salnitro. È confermato da alcuni informatori che le stesse si potevano acquistare nelle botteghe (Soglio), op- pure da girovaghi che raccoglievano i polipori nei boschi e provvedevano a trasformarli (Intragna, Palagnedra). Il fuoco si otteneva battendo ripetutamente l’acciarino sulla pietra focaia, così da produrre delle faville che cadevano sull’esca posta a suo di- retto contatto, provocandone l’accensione: tra- schè la lésca dré l crustall par pizzè ul föi , attizzare l’esca percuotendo la selce piromaca con l’accia-

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