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Verso la politica come professione

02.07.2014

Confronti, luglio 2014

Intervista di Marco Cagnotti

Se non segui da vicino la sua attività, ogni tanto scopri qualche nuova associazione in cui opera attivamente. E allora ti chiedi: ma come fa? Già, come fa Marina Carobbio? Consigliera nazionale. Vicepresidente del Partito Socialista Svizzero. E poi l’Associazione inquilini, l’Iniziativa delle Alpi… Quanto tempo le rimane per il lavoro come medico e per la vita privata? Se il lavoro viene sacrificato, Marina Carobbio è la prova provata che il prezzo da pagare per una politica attiva è la sua professionalizzazione?

Marina, perché hai studiato medicina?

È un interesse che avevo fin dai tempi del liceo. Mi dava la possibilità di coniugare gli interessi scientifici con quelli umani, la scienza con le persone, la società. Questo me l’ha dato la medicina, come ora me lo dà la politica. Così ho studiato Basilea, ho seguito il percorso professionale di ogni medico e nel 1999 ho iniziato a collaborare in uno studio di gruppo a Roveredo, dove però ho sempre lavorato a tempo parziale, per occuparmi sia del mio primo figlio, Matteo, che all’epoca era piccolo, sia della politica. Infatti ero entrata in Gran Consiglio già nel 1991, quando ancora studiavo. E anche quella è stata una scelta che ha condizionato la mia attività professionale: alcune specializzazioni mi sarebbero anche interessate, ma la passione politica ha prevalso.

Già, la passione politica: com’è nata?

Ho cominciato a occuparmi di politica attiva già da giovanissima. Per esempio, quando io ero in terza media ci fu il passaggio alle sezioni A e B e, per protestare, alcuni miei compagni e io scrivemmo una lettera aperta ai giornali e al Dipartimento della pubblica educazione. Ebbene, una persona rispose insinuando che quella lettera era stata ispirata da mio padre… che però nemmeno lo sapeva! Puoi immaginare quanto io ci rimasi male, proprio in quell’età in cui vuoi dimostrare che agisci in maniera indipendente. (Ride.)

Però in casa tua la politica c’è sempre stata.

Certamente. (Ride.)

Tuttavia nella politica attiva sei entrata nel 1991.

In realtà no. Mi occupavo di politica già prima, nei movimenti studenteschi al Liceo e nei movimenti di aiuto allo sviluppo quando studiavo all’università. Nel 1991 sono stata eletta in Gran Consiglio sulle liste del PSU. Sono rimasta in Parlamento per 16 anni, fino al 2007, quando poi sono andata a Berna per sostituire Franco Cavalli, che si era ritirato.

Nella tua vita ci sono tre grandi impegni: la famiglia, il lavoro, la politica. E molti si chiedono: «Ma come fa la Carobbio a fare tutto?

(Ride.) È una domanda che mi sento porre spesso. Io mi sono sempre considerata una privilegiata perché ho sempre goduto di una rete di sostegno grazie a mio marito e alla mia famiglia. La conseguenza inevitabile, però, è stata che, da quando sono diventata mamma, non ho più potuto lavorare al 100%. Quando nel 1996 è nato Matteo, io ero in Gran Consiglio e perciò ho dovuto ridurre la percentuale. Il grosso cambiamento è stato l’ingresso in Consiglio nazionale: l’attività è aumentata tantissimo, sia per la trasferta sia per il carico di lavoro. Se nella prima legislatura, seppure a fatica, riuscivo ancora a conciliare le varie attività, con la seconda, dal 2011, ho dovuto ridurre moltissimo l’attività come medico. Ora faccio solo delle piccole collaborazioni, perché ogni settimana trascorro da due a quattro giorni a Berna. Infatti partecipo a più commissioni e sono pure più attiva anche in organizzazioni nazionali. E questo crea ulteriori impegni.

Ti manca il lavoro come medico?

A me il mio lavoro è sempre piaciuto. Però la transizione verso l’attività solo politica si è rivelata un passaggio naturale. Comunque è stato importante mantenere un contatto con la società esterna alla politica. Ci riesci o con il lavoro oppure, come faccio io ora, con le associazioni. Per esempio ho spesso a che fare con gli inquilini e i malati, che mi scrivono per esporre i loro casi di affitto o di rapporti con le casse malati.

Se dovessi lasciare la politica, torneresti a lavorare come medico?

Penso di sì, ma non so in che forma.

Tu stessa riconosci di essere una privilegiata grazie alla rete familiare che ti sostiene. Il fatto che sia necessaria questa condizione favorevole per poter seguire la politica come la segui tu non significa un fallimento della democrazia rappresentativa? Un giardiniere o un falegname o un poliziotto non potrebbe permetterselo.

Non è un fallimento della politica ma della società. Ci sono molte persone, soprattutto donne, che non possono ridurre la propria attività lavorativa per conciliarla con la famiglia perché, al di là della rete familiare, non c’è una rete sociale offerta dallo Stato sotto forma di servizi. È chiaro che la politica dovrebbe garantire l’accesso a tutta la società.

Tu hai potuto conciliare il lavoro con la politica grazie al fatto di essere una libera professionista. Ma come lavoratrice dipendente, per esempio come medico in un ospedale, avresti potuto dedicarti all’attività politica con lo stesso impegno?

L’Ente Ospedaliero Cantonale concede alcuni giorni per attività pubbliche. Dunque ci si può dedicare alla politica comunale e forse anche, in parte, alla politica cantonale. Di sicuro non alla politica federale senza ridurre il proprio tempo di lavoro.

Quindi, volendo dedicarsi alla politica federale, bisogna diventare dei politici di professione.

È proprio la tendenza che si sta affermando. Io sono sempre stata favorevole al Parlamento di milizia. E in realtà non si tratta nemmeno di un problema finanziario, perché i parlamentari a Berna ricevono delle indennità adeguate. Però devo riconoscere che la complessità dei dossier impone un carico di lavoro tale da imporre una certa professionalizzazione della politica. Per questo noi abbiamo persone che hanno abbandonato la propria attività professionale per diventare parlamentari. O anche casi di giovani che hanno finito di studiare e non hanno neppure iniziato una professione perché sono entrati nella politica federale attiva e si sono trovati sommersi dal carico di lavoro.

E questo crea dei problemi.

Io ne vedo soprattutto due. Il primo è quello che ho già citato: si perde un po’ il contatto con la realtà al di fuori del Parlamento. Per questo io cerco comunque di mantenere un minimo di attività professionale e di contatto con la società esterna alla politica, con le persone o tramite le associazioni in cui sono attiva. Però non posso pretendere di lavorare anche solo al 50% e di proseguire l’attività politica a Berna. Per quanto mi riguarda, con due commissioni e la delegazione delle finanze, la vicepresidenza del PSS più l’Associazione inquilini e altre organizzazioni come l’Iniziativa delle Alpi, sarebbe impossibile. Il secondo problema riguarda chi entra in politica molto presto e, terminata la propria attività politica magari verso la mezza età, ha poi difficoltà a entrare nel mondo del lavoro.

Siccome l’attività politica monopolizza l’attenzione fino a impedire ogni attività professionale e del resto il compenso ricevuto è più che dignitoso, di fatto non siamo già a una reale professionalizzazione?

Dipende dal numero di commissioni alle quali si partecipa. Io ho due commissioni e una delegazione, per cui posso dire che il reddito è più che sufficiente. Ma non per tutti è così. C’è poi il problema della mancanza della cassa pensione. Aggiungi le difficoltà che si incontrano in caso di mancata elezione, che di fatto diventerebbe una perdita del lavoro. D’altronde è chiaro a tutti che un consigliere federale o un consigliere di Stato deve svolgere il proprio lavoro a tempo pieno, quindi le cariche negli Esecutivi giustamente sono professionalizzate. Invece c’è ancora un tabù nell’ammettere che anche l’impegno di un parlamentare è paragonabile, perché il Legislativo dovrebbe fare da contrappeso all’Esecutivo. Infatti proprio il partito che più di ogni altro difende il Parlamento di milizia, cioè l’UDC, si trova poi ad avere dei rappresentanti che vanno verso la professionalizzazione per le stesse mie ragioni: semplicemente non ce la fanno. Infine c’è la questione della durata delle sessioni.

In che senso?

Nel senso che le sessioni lunghe tre settimane sono difficili da conciliare con la vita familiare. Se sei genitore di bambini piccoli, stare via da casa per tre settimane di fila è pesante, per te e per i tuoi figli, specie se vivi in un cantone periferico. Io l’ho vissuto sulla mia pelle. Per questo c’è una proposta della mia collega socialista Yvonne Feri per modificare il ritmo dei lavori parlamentari, portandoli a una settimana al mese o a dieci giorni ogni due mesi.

Nella professionalizzazione non è insito il rischio dell’allontanamento dal resto della società? In Italia la «casta» viene considerata così proprio perché i politici sembrano vivere in un mondo separato di privilegi e di auto blu con la scorta, senza alcun contatto con le persone comuni. In Svizzera invece puoi incontrare al supermercato anche un consigliere federale, cioè il vertice del potere. Noi perderemo questa peculiarità?

Un migliore riconoscimento del lavoro di parlamentare non comporta la creazione di una casta. Noi siamo al limite della professionalizzazione perché il nostro Parlamento riflette quello che era 30 o 40 anni fa, con quattro sessioni di tre settimane e nel resto del tempo le riunioni delle commissioni, con frequenza quasi settimanale, perché il lavoro parlamentare riflette la complessità dei dossier. Tuttavia a noi viene riconosciuta solo la possibilità di avere un collaboratore o una collaboratrice personale al 20%. Ecco, io trovo che lì si potrebbe fare di più. Negli altri Stati europei i parlamentari arrivano ad avere addirittura degli staff. Non si tratta di arrivare a tanto e nemmeno di aumentare il nostro reddito, bensì di garantire un supporto adeguato.

Spesso la gente non sa che la democrazia è rappresentativa solo formalmente. Tutti pensano che sia «una testa, un voto», mentre di fatto un voto di Turgovia vale molti voti di Zurigo per la questione della rappresentatività agli Stati. Non pensi che il sistema dovrebbe essere corretto?

Ci sono diverse proposte, alcune delle quali provenienti dal Partito Socialista. Il Consiglio nazionale ha una rappresentatività proporzionale, mentre il Consiglio degli Stati rappresenta i Cantoni e riflette l’attenzione per il federalismo e le minoranze. Però è legittimo chiedersi perché Zurigo debba avere lo stesso peso di Svitto. In effetti c’è un problema. Tuttavia non è chiaro come correggerlo, perché non si può semplicemente trasferire il potere ai grandi centri. Se anche la Camera degli Stati diventasse proporzionale alla popolazione, alla fine conterebbero solo Ginevra, Losanna e Zurigo.

Del resto succede anche a livello cantonale, dove con i circondari si può essere eletti con meno voti di altri solo perché ci si trova in una regione periferica. Insomma, con pochi voti di valle passi davanti a un altro con molti voti di città. Del resto però i circondari servono a rappresentare le zone discoste.

Però di fatto noi avevamo più rappresentanti delle regioni discoste quando non avevamo i circondari, mentre ora che usiamo i circondari abbiamo più rappresentanti di città. Perciò, secondo me, non è per forza con i circondari che si ottiene una migliore rappresentanza delle periferie. Tuttavia a livello federale bisognerebbe essere molto cauti nel cambiare il sistema, perché il rischio sarebbe quello di trasferire troppo potere ai grossi centri.

Chi è
Nata nel 1966, medico, sposata e con due figli, dopo 16 anni in Gran Consiglio Marina Carobbio è entrata in Consiglio nazionale nel 2007. Oggi è vicepresidente del Partito Socialista Svizzero, presidente dell’Associazione svizzera inquilini, copresidente dell’Associazione per l’aiuto medico al Centro America, presidente della Coordinazione nazionale per la politica delle dipendenze, membro del comitato del Coordinamento donne della sinistra, membro del comitato del Movimento dei senza voce, membro supplente del comitato VPOD.

 



 



Autori

Marina Carobbio Guscetti

Marina Carobbio Guscetti