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FATCA: emblema del neoimperialismo americano?

29.07.2014

La Regione, 29.7.2014

Il FATCA continua a far parlare di sé e non solo tra gli addetti ai lavori. La sigla sta per Foreign Account Tax Compliance Act: potremmo tradurla con “legge sulla conformità fiscale dei conti esteri” di cittadini americani. Questa lex americana è entrata in vigore lo scorso 1. luglio con lo scopo di assoggettare gli intermediari finanziari di tutto il mondo, che vogliono ottenere o continuare a beneficiare dell’accesso al mercato statunitense, ai medesimi obblighi di segnalazione a cui sottostanno le imprese americane che offrono servizi finanziari. In altre parole: per gli USA è del tutto normale estendere all’intero globo terracqueo le disposizioni del loro diritto interno in materia di obblighi di collaborazione e informazione in riferimento ai conti detenuti da cittadini o società americani. Un buon esempio di applicazione extraterritoriale del diritto made in USA. Tutte le banche del mondo che non vogliono rinunciare ad essere dei cosiddetti global player non hanno altra scelta, se non quella di adeguarvisi. Altrimenti niente accesso all’enorme mercato finanziario americano. Ecco da dove deriva la pretesa degli USA di imporre il loro diritto interno anche al di fuori dei propri confini nazionali: dalla consapevolezza dell’importanza e dell’interesse irresistibile del proprio mercato.

Le conseguenze per istituti finanziari, amministratori patrimoniali, fiduciari, società che gestiscono fondi di investimento, hedge founds, compagnie assicurative e veicoli di private-equity in tutto il mondo sono pesanti. Essi sono tenuti infatti a trasmettere immediatamente all’autorità fiscale americana (IRS) tutte le indicazioni relative ai conti intestati a clienti statunitensi o controllati da beneficiari economici domiciliati negli USA, i cui averi superano la soglia dei 50'000 dollari. I costi per la raccolta e trasmissione di tutta questa miriade di dati fiscalmente rilevanti sono semplicemente esorbitanti. Secondo stime riportate dalla NZZ dello scorso 27.6. l’onere medio approssimativo causato dal FATCA a livello internazionale si aggira attorno ai 3 mio. di dollari per intermediario finanziario. Calcolando le decine di migliaia di intermediari finanziari coinvolti in tutto il mondo, balza subito all’occhio l’entità dei costi globali di implementazione del sistema. Per contro, il maggiore introito complessivo a favore del fisco americano non dovrebbe superare gli 850 mio di dollari all’anno.

La sproporzione tra gli svantaggi provocati agli intermediari finanziari e il vantaggio che ne trarranno gli USA è di meridiana evidenza. Già per la sola piazza finanziaria elvetica l’Associazione svizzera dei banchieri valuta il costo aggiuntivo di questo nuovo regime regolatorio in circa 300 mio. di CHF all’anno. E stiamo parlando solo delle banche che operano nel nostro Paese. Si tratta verosimilmente del più costoso regime di trasmissione di informazioni escogitato ed applicato nella storia a livello internazionale, a favore di un unico Stato: quello che lo ha imposto unilateralmente. Tutte i flussi monetari e i pagamenti provenienti dagli USA e destinati ad intermediari finanziari esteri che non risultano assoggettati alle imposizioni del FATCA sono colpiti da una penale del 30%. Soltanto coloro che rinunciano completamente a collocamenti diretti o indiretti negli USA, p.es. attraverso fondi di investimento o prodotti strutturati, non sono tenuti ad ossequiare gli obblighi previsti dal nuovo regime. Ma è un’opzione che ovviamente non entra in considerazione per banche attive su scala internazionale.


Invero non solo il FATCA, bensì pure il sistema sanzionatorio applicato dagli USA a diverse banche estere che hanno gravemente violato le regole americane del diritto federale statunitense (e non solo disposizioni di conformità fiscale) rientra nella concezione extragiurisdizionale del diritto da parte degli USA, ormai sempre più in auge. La multa di 2,6 miliardi di dollari inflitta quest’anno al Credit Suisse (per aver assistito numerosi suoi clienti ad evadere il fisco americano) non fa più scalpore di fronte alla recente scoppola di ben 8,9 miliardi di dollari, che si è visto appioppare il colosso bancario BNP Paribas per aver coadiuvato istituti finanziari e clienti ad eludere l’embargo e le sanzioni stabiliti dagli USA contro Paesi come l’Iran, il Sudan e Cuba. Chi scherza con il fuoco americano, prima o poi si brucia. Non basta la multa stratosferica: l’istituto francese, costretto a dichiararsi colpevole, subirà come “pena accessoria” anche le conseguenze drastiche del divieto di clearing in dollari nel traffico dei pagamenti internazionali. Si tratta di un micidiale svantaggio competitivo perché i pagamenti nel commercio internazionale si fanno in dollari e quelli in altre divise rappresentano un’irrilevante minoranza.


Questo modo di agire, che assomiglia molto a quello di una potenza neoimperialista, irrita molti osservatori. Non mancano tuttavia coloro che invece plaudono agli USA ogni qualvolta castigano questa o quella banca con multe salatissime. Questa sorta di “Schadenfreude” è dovuta alla reputazione intaccata di alcuni grossi istituti internazionali, in particolare a causa dei clamorosi episodi di cattiva governance. Il fatto che queste banche stiano adoperandosi con rilevante dispendio di risorse per evitare il ripetersi di analoghe vicende e di nuovi scandali non sembra ancora essere percepito compiutamente dall’opinione pubblica. Rimane comunque la questione a sapere se questa draconiana applicazione extragiurisdizionale del diritto americano produrrà un vantaggio effettivo al mercato finanziario degli USA. E’ certo invece che il sistema delle sanzioni esemplari va a colpire in definitiva la clientela e l’azionariato delle banche bastonate, lasciando invece il più delle volte indenni i loro manager che ben conoscevano o addirittura assecondavano queste pericolose pratiche di elusione fiscale ai danni degli USA .

 



 



Autori

Giovanni Merlini

Giovanni Merlini