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Autori: Mattia Bertoldi
Data: 24 marzo 2016

La parola ad Attilio Cometta, dal primo febbraio 2016 Delegato cantonale per l’integrazione degli stranieri

«L’integrazione passa dai piccoli gesti»

Dopo dodici anni di servizio a capo della Sezione della popolazione, Cometta ha trovato una nuova sfida professionale e umana. In qualità di nuovo delegato, sta proseguendo il lavoro a stretto contatto con la Confederazione e il Dipartimento delle istituzioni, pronto a coinvolgere maggiormente Comuni e associazioni. «Auspico una maggior partecipazione e presenza sul territorio da parte di tutti gli enti coinvolti.»

Signor Cometta, lei lavora per l’Amministrazione cantonale dal 1990. Come mai ha sempre preferito lavorare nel settore pubblico?
«Be’, tra le qualità che mi sono state riconosciute nel corso di questi anni ci sono la disponibilità, l’empatia, la capacità di ascolto e un buon equilibrio tra rigore e umanità. Tutte caratteristiche che collimano bene con il servizio pubblico, in particolar modo all’interno di uffici così a stretto contatto con la popolazione come l’Ufficio di esecuzione e fallimenti (di cui sono stato capo dal 1996 al 2003) e la Sezione della popolazione.»

Quali sono stati le situazioni più difficili, in oltre 25 anni di servizio?
«In ambito esecutivo, il recupero di crediti scoperti con pignoramenti di salario spesso molto incisivi e le cessazioni di attività a conduzione famigliare da generazioni a seguito di fallimento. Nel settore dei permessi, ne ricordo in particolare due: il caso di Antonio Barbieri, il cittadino italiano con diversi precedenti nel suo Paese che ha ucciso uno straniero nel nostro Cantone e la storia di una mamma ucraina con quattro figli che hanno rischiato la vita sul Monte Lema innevato. Sono state situazioni complesse da gestire non tanto dal punto di vista amministrativo, ma per tutto ciò che le avvolgeva - dall’opinione pubblica, ai media oltre i confini nazionali, ai contraccolpi emotivi. Difficile rimanere insensibili di fronte a fatti del genere.»

Dopo dodici anni a capo della Sezione della popolazione, ecco un nuovo incarico a partire dal primo febbraio scorso: Delegato cantonale per l’integrazione degli stranieri.
«Si tratta di un’evoluzione quasi naturale di quanto svolto fino ad allora. Il Ticino sta muovendo i primi passi nel campo dell’integrazione coordinata e strutturata rispetto ad altri cantoni e città, per esempio Losanna che vanta un ufficio da ormai 25 anni. La trovo tuttavia una sfida appassionante, creativa e vastissima, ed è per questa, tra l’altro, che ho deciso di affrontarla.»

In questi giorni avrà dovuto spiegare spesso di che ruolo si tratta, anche a persone non esperte del ramo.
«E infatti cerco sempre di riassumere dicendo che ho il compito di favorire il promovimento dell’integrazione degli stranieri e la prevenzione della discriminazione come stabilito dalla Confederazione. Tra i principali ambiti vi è l’elaborazione e l’applicazione del Programma d’integrazione cantonale (PIC) nel quale sono fissati gli obiettivi e i campi d’intervento. Inoltre, assicuro contatti in materia d’integrazione con i comuni, le associazioni private e para pubbliche nonché le comunità degli stranieri.»

Lei è in carica da poco più di un mese, ma un’idea sui margini di sviluppo se la sarà fatta.
«Dopo aver studiato i principali dossier lasciati dal mio predecessore Francesco Mismirigo - che ha svolto un importante e oneroso lavoro per la messa in funzione del PIC - e aver conosciuto buona parte delle persone coinvolte in questo ambito, sono convinto che coinvolgere maggiormente i Comuni e le comunità straniere sarà fondamentale per affrontare meglio i prossimi ostacoli. Molti gruppi presenti nel nostro Cantone - siano essi etnici, religiosi o nazionali - condividono molte problematiche e possono quindi ottenere soluzioni comuni. Da parte nostra, ce la metteremo tutta per fornire sostegno e aiuto.»

Quali sono le chiavi per raggiungere l’obiettivo finale, ovvero una società ticinese capace non di assimilare gli stranieri, ma di integrarli? «Dobbiamo capire che l’integrazione è fatta in primo luogo di piccoli gesti o attenzioni alla portata di tutti e di quei passi che cittadini e stranieri compiono gli uni verso gli altri.»

Ci sono anche casi di razzismo?
«No, non credo ci sia un problema di razzismo in Ticino ai sensi del codice penale. La popolazione ticinese è generosa e solidale, ma non è generalmente propensa a fare il primo passo verso l’altro. La percezione dei fenomeni di razzismo e di discriminazione si esprimono in situazioni di disagio o di strumentalizzazione politica, ideologica e mediatica del fenomeno della migrazione.»

E come è possibile superarla?
«Bisogna prevenire e agire. Tramite iniziative come la Settimana contro il razzismo, in programma in marzo. Anche se la natura discriminatoria di comportamenti, gesti, scritti e parole non è rilevante giuridicamente, non significa che non deve essere contrastata o perseguita ad esempio tramite denuncia per ingiuria. È comunque latente in ognuno di noi. Bisogna saperla riconoscere e gestirla. È importante continuare a sensibilizzare e migliorare la percezione dell’altro e monitorare i casi senza sottovalutare le paure.»

L’informazione e la conoscenza sono sempre le migliori vie per sradicare la discriminazione razziale dall’interno?
«Penso di sì. È indispensabile possedere sensibilità e conoscenze per interagire in maniera adeguata con culture differenti. Dobbiamo mantenere uno spirito critico nei confronti di ciò che ci circonda e non diventare vittime, sviluppando un proprio giudizio e senso della realtà. La comunicazione può essere manipolata, parziale o volutamente errata. La realtà stessa può essere modificata o diversamente percepita. Il Ticino si trova confrontato a importanti flussi migratori che condizioneranno la nostra vita nei prossimi decenni; dobbiamo partire dalle basi e dalla conoscenza reciproca prima di poter costruire qualcosa di solido e duraturo.»

Quale libro e film consiglierebbe ai lettori di ArgomenTI, per affrontare il tema dell’integrazione da un punto di vista alternativo?
«Ce ne sono parecchi, da La vita è bella di Roberto Benigni, che avrò visto decine di volte e non mi stanca mai al più recente Untouchables, lungometraggio francese, mentre sul fronte dei libri ho apprezzato Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti che si è finto un emigrante ed è partito dal Sahara alla volta dell’Europa.»

Ci sono altre esperienze che l’hanno ispirata, in questi anni? «Di sicuro i viaggi di lavoro. Sono stato per esempio in Kosovo per scoprire il lento processo di ricostruzione sociale, culturale ed economico, dove ho avuto anche l’opportunità di incontrare persone che, dopo diversi anni diversi trascorsi in Svizzera quali rifugiati, sono riuscite a tornare nel loro Paese natale con un bagaglio formativo quali artigiani e piccoli imprenditori. Avevano imparato l’importanza della qualità, serietà e puntualità del proprio lavoro e di come ciò aveva influito sulla loro intera vita. Un’altra trasferta mi ha portato in Ecuador, e anche lì è stato importante analizzare le migrazioni degli ecuadoregni verso il nostro Cantone dal loro punto di vista. Un tema al centro anche di un bel documentario, RUNA LLACTA, che è stato presentato a Monte Carasso per la Settimana contro il razzismo.»