
Dipartimento dell'educazione, della cultura e dello sport
Discorso
Dipartimento dell'educazione, della cultura e dello sport
10 maggio 2025
Saluto della Consigliera di Stato Marina Carobbio Guscetti in occasione del XXIX Dies academicus dell’Università della Svizzera italiana, Lugano 10 maggio 2025
- Fa stato il discorso orale -
Stimata Presidente del Consiglio dell’Università, signora Duca Widmer,
stimati membri del Consiglio dell’Università,
stimata Rettrice, signora Lambertini,
stimate professoresse e professori,
stimati rappresentanti delle autorità,
gentili ospiti,
gentili studentesse e studenti,
gentili signore e signori,
Il Dies Academicus è, ogni anno, un momento di particolare intensità: celebrare l’università significa riflettere sul sapere, ma anche sul nostro modo di abitare il tempo. E farlo oggi, in Ticino, all’Università della Svizzera italiana – un ateneo giovane, dinamico, aperto al mondo – ci permette di allargare lo sguardo: sull’educazione, sulla cultura, sulla società che stiamo contribuendo a costruire. Aprire le porte dell’università alla popolazione e al territorio, come proposto proprio oggi con la giornata denominate “UniVerso”, è in questo senso un segnale positivo.
A nome del Governo cantonale e come direttrice del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, voglio esprimere un sincero ringraziamento a tutta la comunità dell’USI per il lavoro che svolgete ogni giorno. Con il vostro impegno, contribuendo a far crescere l’ateneo e a promuovere la cultura, la formazione e la ricerca, rafforzate il ruolo dell’università come motore di sviluppo sociale e umano, rendendola un punto di riferimento per tutto il Cantone, oltre che al di fuori dei confini del Ticino.
Viviamo in un’epoca attraversata da tensioni profonde. Da guerre che si svolgono accanto a noi a conflitti dimenticati, le violenze si moltiplicano e le disuguaglianze si allargano. A tutto questo si sommano le crisi ecologiche, le migrazioni forzate, il disorientamento generato dalla velocità dei cambiamenti tecnologici e degli stravolgimenti geopolitici in atto.
È un tempo in cui molte certezze si sono incrinate. E non possiamo ignorare che tutto questo produce, in molte e molti – forse soprattutto nei più giovani – un senso di smarrimento. Ci sono domande che a volte sembrano senza risposta, e anche il sapere, che dovrebbe aiutarci a capire e dar senso a ciò che accade, rischia talvolta di sembrare distante e forse perfino superfluo, a fronte di situazioni oggettivamente difficili da comprendere e da giustificare razionalmente.
Mai avrei immaginato ad esempio di dover assistere all’inquietante e raccapricciante spettacolo del ricatto finanziario e del tentativo di censura e ingerenza a fini politici da parte di un governo democraticamente eletto, quello degli Stati Uniti, sulla libertà accademica di alcuni tra i principali atenei americani. Un attacco gravissimo e preoccupante ai princìpi fondanti dell’indipendenza e della libertà di insegnamento e di ricerca. Princìpi che dovrebbero essere sempre garantiti, qui in Ticino, in Svizzera, in Europa, ovunque nel mondo.
In questo contesto internazionale, le università – e più in generale le istituzioni della formazione – hanno un compito decisivo. L’università non è solo una “fabbrica del sapere”, un luogo dove si producono conoscenze e competenze. Le università sono anche laboratori di innovazione e di scoperta, laboratori sociali, e luoghi in cui si impara a rispettare le idee altrui, a confrontarsi civilmente e a prendersi cura. Cura del sapere, certo. Ma anche cura delle persone, delle relazioni, delle fragilità.
Mi riferisco, in particolare, alle studentesse e agli studenti. A chi attraversa oggi i percorsi formativi portando con sé non solo aspirazioni e ambizioni, ma anche domande complesse, fatiche interiori, inquietudini. L’università, per essere davvero all’altezza del suo tempo, deve poter accogliere tutto questo. Deve essere spazio di fiducia, non solo di selezione. Comunità educante, non solo istituzione valutativa.
Cura: è una parola che oggigiorno si tende ancora a relegare al privato, al femminile, al secondario. E invece la cura – dell’altro, del sapere, delle istituzioni – è un atto politico essenziale. L’università può diventare – e in parte già lo è – un laboratorio di cura civile, dove non si producono solo competenze, ma si coltivano relazioni, si accolgono vulnerabilità, si costruisce coesione.
Questo ci interpella anche come governo. Perché la ricerca scientifica, l’accesso al sapere, la libertà accademica non sono faccende “tecniche” da lasciare a specialiste e specialisti: sono beni pubblici. Sono strumenti con cui le democrazie si prendono cura di sé stesse.
E credo che sia proprio in questo spirito che l’Università della Svizzera italiana ha saputo crescere: nella ricerca dell’eccellenza, certo, ma anche nella vicinanza, nella relazione personale, in un’idea di sapere che resta accessibile, vivo, umano.
Un secondo tema che desidero richiamare riguarda il senso della scienza.
Oggi la ricerca è spesso compressa tra pressioni politiche, logiche di mercato, metriche quantitative. Credo sia il momento di riprendere un’idea più profonda e umile del sapere: non come conquista, ma come dono. Un sapere umanistico, che non si accumula per dominio e sopraffazione dell’altro, ma si condivide equamente e reciprocamente per il bene comune. Che non si misura solo per il suo impatto economico, ma per il bene che è capace di generare. Per l’umanità che riesce a toccare.
La scienza, quando è libera, quando è dialogica, quando è consapevole della sua responsabilità, può diventare davvero strumento di giustizia, di emancipazione, di riconoscimento. Un sapere che non esclude, ma include. Che non rafforza le disuguaglianze, ma le riduce. E credo che questa sia una visione profondamente politica, nel senso più alto del termine.
E poi c’è il futuro.
Viviamo in un mondo che spesso esalta l’innovazione e l’accelerazione a prescindere. Ma l’università – oggi più che mai – deve saper coltivare e plasmare il futuro prendendosi anche il tempo necessario per far tesoro criticamente degli insegnamenti del passato. Futuro non come slancio acerbo, dunque, ma come responsabilità creativa radicata. Una capacità di pensare in grande, di formulare domande nuove, di immaginare mondi possibili diversi e di trovare soluzioni. È questo, forse, il più grande investimento che possiamo fare come società: formare persone capaci di sognare, ma anche di agire responsabilmente, nell’interesse universale.
Un’università, dunque, come spazio in cui pensare ciò che ancora non c’è, ma vorremmo potesse esserci. E – collegandomi a questo – permettetemi di dire una parola sulla pace.
In un mondo segnato da guerre – da Gaza all’Ucraina, dal Sudan ad altri conflitti dimenticati – si parla spesso di sicurezza, difesa, geopolitica. Ma la pace non si costruisce solo con pressioni e trattati: si costruisce anche – e forse soprattutto – con parole nuove, con ascolto ed empatia, con pensiero critico, mettendo la ricerca della nostra comune umanità prima dell’esacerbazione delle differenze. Perché se è vero che la guerra si combatte con le armi, è altrettanto vero che la pace si costruisce con il linguaggio, con la cultura, con l’educazione. L’università, con la sua capacità di dialogare tra le differenze, di creare spazi di confronto, può essere importante attore di riconciliazione. E oggi abbiamo tanto bisogno di riconciliazione. Non è un’illusione. È una responsabilità. Una funzione poco visibile, ma essenziale. E oggi più che mai urgente.
Gentili signore e signori,
il contesto finanziario in cui ci muoviamo – a livello federale prima ancora che a livello cantonale – è com’è noto complesso e pone delle sfide. I tagli prospettati a livello federale avrebbero effetti importanti sulla qualità della formazione e della ricerca universitaria in Svizzera. Un taglio sul futuro comprensibilmente avversato in modo chiaro dal mondo universitario e dal Canton Ticino, e che spero possa essere scongiurato. Perché oggi più che mai abbiamo bisogno di investire nell’educazione, nella formazione e nella ricerca. Non farlo sarebbe un grave errore che porterebbe il nostro paese e il nostro Cantone indietro di decenni. Garantire mezzi e risorse finanziarie significa riconoscere che investire nel sapere e nella ricerca vuol dire investire nei giovani e nel futuro, creare posti di lavoro qualificati e opportunità per donne e uomini, avere un Cantone aperto e non chiuso su sé stesso.
Sul fronte cantonale, nonostante un contesto finanziario molto complesso che ha portato a numerose misure di risparmio in diversi settori, il Messaggio di politica universitaria cantonale per il quadriennio 2025-2028 presentato dal Consiglio di Stato ha consentito di stanziare per l’intero settore universitario un totale di 736 milioni di franchi, in lieve aumento rispetto al quadriennio precedente (un aumento medio annuo dell’1.91% sul periodo considerato).
Questo per dire che sono consapevole che oltre alle belle parole, occorrono poi anche i fatti, le risorse per attuare quanto richiesto. Da parte mia, voglio esprimere un chiaro impegno a sostenere l’università sia nei fatti che come idea. Un’idea alta, inclusiva, esigente. Un’università che forma menti libere, che accoglie la complessità, che non si accontenta di rispondere, ma insegna a porre le domande giuste.
L’Università della Svizzera italiana è un tassello prezioso del nostro tessuto educativo e culturale. Il suo contributo alla vita del Ticino è significativo e crescente. Ma le sfide che abbiamo davanti richiedono, a tutte e tutti, un passo ulteriore: una disponibilità a pensare insieme, a mettersi in gioco, a immaginare una formazione che sia davvero, fino in fondo, al servizio dell’umanità.
Il Dies Academicus, allora, non è solo celebrazione del passato, ma invito a costruire insieme un futuro aperto, condiviso, inclusivo, umano.
Un futuro che comincia – come sempre – dalle parole che sappiamo ancora dire.
Dalle persone che sappiamo ancora formare.
E dalla speranza che sappiamo ancora trasmettere.