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Discorso 1° agosto 2014 a Minusio

01.08.2014

Rappresentanti delle Autorità,
Gentili Signore e Signori,

prima di tutto saluto cordialmente le cittadine e ai cittadini di Minusio e tutti gli ospiti presenti; un grazie di cuore va agli organizzatori di questa manifestazione e al vicesindaco Tiziano Tommasini per avermi offerto il privilegio di tenere l’allocuzione ufficiale in occasione dell’odierna Festa nazionale.

Mi sono chiesto negli scorsi giorni che cosa penserebbero della Svizzera contemporanea Arnold von Stauffacher, Werner Fürst e Arnold von Melchtal, protagonisti del Patto del Rütli, i quali oltre settecento anni fa – stimolati dal decesso di Rodolfo I di Asburgo – decisero di dar vita all’eterna alleanza confederale. Sono convinto che resterebbero attoniti dall’incredibile progresso compiuto dai Confederati. Ma probabilmente resterebbero anche stupiti del notevole scarto esistente oggi tra la percezione da parte dei cittadini dello stato di salute di questa Nazione e la sua situazione oggettiva. Questa differenza tra il vissuto soggettivo delle persone e i dati oggettivi è andato crescendo significativamente negli ultimi anni. Il nostro Paese sta piuttosto bene – soprattutto nel confronto con i grandi Stati europei – e ha superato senza troppe ammaccature la grave crisi internazionale scoppiata nel 2008. Cionondimeno, i suoi abitanti non sempre avvertono sulla loro pelle i benefici della congiuntura economica e della sicurezza sociale. Percezione e realtà stentano a collimare. Nonostante un contesto socioeconomico contraddistinto da un tasso di disoccupazione tra i più bassi del nostro Continente e un PIL in crescita, incontriamo ogni giorno persone disorientate e sfiduciate, poco inclini all’ottimismo quando parlano delle loro esistenze e quando immaginano la Svizzera nei prossimi decenni e le relazioni con il mondo che la circonda.

Ci sentiamo sotto pressione. Vediamo minacciato il nostro posto di lavoro, il nostro pensionamento, i giovani non riescono a progettare il loro futuro (oggi un master universitario non spalanca più le porte a chi se l’è sudato come invece succedeva con una laurea conquistata 20 anni fa), siamo sempre più insofferenti delle regole del gioco dettate dalla competitività, e tutto sembra galleggiare sulle acque limacciose della precarietà. Molti concittadini mi confessano di sentirsi meno sicuri di dieci anni fa e scuotono la testa sconcertati di fronte al progressivo sgretolarsi delle certezze che prima scandivano le loro vite. Sono preoccupati per le minacce al loro tenore di vita, per l’indebitamento di certe assicurazioni sociali e per le incertezze riguardanti il pensionamento, ma anche per la rimessa in discussione – sotto pressione esterna – dei pilastri elvetici dello Stato liberale, come p.es. la riservatezza della sfera privata e il segreto bancario svizzero. Il nostro rapporto con l’UE, con il resto del mondo e con gli stessi flussi migratori si fa sempre più complicato e problematico. Non siamo più così sicuri di riuscire a preservare integralmente la nostra sovranità e le prerogative di fronte alla rapidità dei cambiamenti e ne rimaniamo destabilizzati. La libera circolazione delle persone introdotta il 1.6.2002 con i Bilaterali 1 ed in particolare lo sviluppo abnorme del frontalierato nel nostro piccolo Cantone (con una proporzione di quasi un frontaliere su 4 lavoratori) inquietano una larga fascia della popolazione, come si è ben visto in occasione della votazione popolare dello scorso 9 febbraio. Viviamo insomma quel tipico sentimento di vulnerabilità e di inadeguatezza che ogni processo di trasformazione porta immancabilmente con sé e la globalizzazione – con i suoi effetti dirompenti sugli stili di vita delle persone e sulle vecchie strutture – non fa eccezione.

In questo clima, la cui cifra preponderante è la perdita di chiari punti di riferimento, fioriscono iniziative politiche che propugnano pseudosoluzioni, con proposte che rinnegano il tradizionale senso della misura elvetico, inseguendo invece le sirene del populismo, poco importa se di destra o di sinistra. Mai come di questi tempi ci siamo visti confrontati con iniziative costituzionali tanto illiberali ed eccessive: penso all’iniziativa sull’imposizione delle successioni, all’iniziativa sull’oro della Banca nazionale, a quella per l’abolizione dell’imposizione forfetaria per stranieri, a quella per l’introduzione di un salario minimo legale di CHF 4’000.- senza distinzioni per tutte le regioni svizzere, alla riedizione dell’iniziativa per l’introduzione di una cassa malati unica che dovrebbe sostituire quelle private, oppure ancora alla cosiddetta iniziativa Ecopop per una limitazione draconiana dell’aumento demografico dovuto all’immigrazione, o all’iniziativa per l’allontanamento automatico di chi ha commesso crimini, e via di questo passo.

Il nostro sistema-Paese sta forse vacillando? E sta vacillando al punto tale da dovere rinnegare prassi e valori consolidati che hanno dato ottima prova di sé, come il partenariato sociale, la libertà di scelta in un sistema di concorrenza regolata, la coesione sociale garantita anche dal nostro federalismo, il principio della responsabilità individuale e collettiva, la solidarietà sociale e regionale, l’apertura al mondo e l’offerta dei nostri buoni uffici nelle crisi internazionali, insomma quella concezione dello Stato e dei suoi rapporti con il cittadino che ha fatto la fortuna del nostro Paese? Certamente no. Sarebbe un errore imperdonabile sacrificare questo inestimabile patrimonio.

Abbiamo diverse ragioni per non abbandonarci al pessimismo e alla demagogia a buon mercato di chi dipinge la Svizzera come Paese assediato da forze cospiratrici esterne e governato da una classe politica imbelle. Le cose, in effetti, non stanno in questi termini. Se esaminiamo la situazione con un po’ di distacco critico possiamo fare subito qualche costatazione che giustifica un atteggiamento più sereno e ottimista.

Questa nostra meravigliosa Willensnation (come si dice in tedesco) ha fatto molta strada, piazzandosi ai primi posti tra gli Stati più ricchi del mondo, pur tra mille difficoltà e non potendo contare sulle materie prime. E’ riuscita abilmente ad internazionalizzare la sua economia stipulando diversi trattati di libero scambio e costruendo con l’UE un’impalcatura di accordi bilaterali fondamentali per il nostro sviluppo, promuovendo così l’esportazione dei nostri prodotti di alta qualità e creando un diffuso benessere. Da quando abbiamo i Bilaterali la congiuntura economica elvetica ha finalmente ripreso a crescere, dopo un decennio piuttosto piatto durante gli anni ’90. Grazie ad un’oculata gestione delle risorse e al freno all’indebitamento, la Svizzera ha saputo tenere ordine nelle sue finanze pubbliche, scongiurando il rischio di dover applicare misure dolorose di austerità, come invece sono stati costretti a fare gli Stati europei che non hanno voluto o saputo gestire correttamente la spesa pubblica. La politica economica liberale e flessibile della Confederazione ha consentito di mantenere la disoccupazione nel 2013 al 3,1 % (e anche quella giovanile a livelli ben inferiori alla media europea), garantendo una crescita della ricchezza interna di circa il 2% con un PIL pro capite di CHF 73’947 nel 2011 (ultimo dato a disposizione), un importo invidiabile nel confronto internazionale. Siamo all’avanguardia nell’offerta sanitaria pubblica e privata così come nell’innovazione e nello sviluppo tecnologico di prodotti e servizi ad alto valore aggiunto, sempre molto richiesti dai mercati internazionali, nonostante la forza del franco svizzero.

Dovremmo esser piuttosto orgogliosi di questi risultati, anche se possiamo ed dobbiamo ancora migliorare. Perché mai dovremmo lasciarci incantare dai venditori di fumo che vorrebbero praticare politiche dirigiste, intolleranti e stataliste, quando i risultati che abbiamo finora ottenuto con il metodo liberale ci vengono invidiati anche all’estero? Perché mai dovremmo abbandonarci al qualunquismo, allo sconforto e al nazionalismo (che è ben diverso dal patriottismo) quando agli occhi del mondo che ci guarda con ammirazione, siamo ancora una nazione modello per la nostra democrazia semidiretta che permette al popolo di avere l’ultima parola anche sui temi più ostici? Perché mai dovremmo lasciarci andare al pessimismo e all’antipolitica quando invece la nostra forza risiede proprio nella solidità delle istituzioni e nella stabilità politico-economica, nello Stato di diritto, nell’alta qualità della formazione e della ricerca, nella pace sociale, nel livello ragguardevole dei servizi finanziari e nella capacità di far convivere armonicamente ben quattro componenti linguistiche e culturali?

E’ ben vero che noi Svizzeri negli ultimi anni ci siamo scoperti cittadini di un Paese un po’ più normale e un po’ più simile ai nostri vicini e quindi un po’ meno “Sonderfall” di quanto non avessimo voluto ammettere, ma ciò non toglie che all’estero la nostra reputazione è sempre ancora intatta. E se riusciamo ad attirare investimenti rilevanti significa che sappiamo offrire condizioni quadro favorevoli e attrattive per chi deve decidere dove meglio allocare le sue risorse.

Certo non possiamo dormire sugli allori.

Il mondo sta cambiando: sta dislocando il suo baricentro economico e politico verso oriente. Sarebbe un grave errore se la Svizzera assistesse passiva a queste trasformazioni epocali. Una politica avveduta si sforza di adeguare in tempo il sistema-Paese a questi cambiamenti, anche perché oggi nulla può più essere dato per scontato. Sono finite le rendite di posizione e va rimodulata anche l’impostazione a favore della crescita che deve sempre di più corrispondere ai criteri della sostenibilità ambientale e sociale, se vuole essere duratura. La vera sfida per l’economia liberale dei prossimi decenni è quella del miglioramento costante della qualità, dell’innovazione, del valore aggiunto e della ricchezza durevole che dovrà saper produrre concretamente sul territorio.

Come sempre nelle delicate fasi storiche di trasformazione delle coordinate di riferimento c’è chi è convinto di poter conservare lo status quo per timore del nuovo. Ma purtroppo c’è anche chi soffia sul fuoco, strumentalizzando le paure diffuse nella popolazione unicamente per trarne un dividendo politico. E non demordono neppure i cultori della politica-spettacolo che hanno solo da guadagnare dalla polarizzazione aggressiva del confronto politico. Ma butteremmo alle ortiche la formula del successo svizzero se lasciassimo prevalere la rissa sul confronto civile e pacato e sulla cultura della concordanza. Il degrado a cui andremmo incontro ci porterebbe alla paralisi politica. Soltanto con il dialogo ed il rispetto delle minoranze e di chi la pensa diversamente, e solo attraverso soluzioni condivise riusciremo a venire a capo dei problemi di adattamento con cui siamo confrontati.

Il successo finora ottenuto deve stimolarci a continuare su questa strada tipicamente svizzera della concertazione, perché è l’unica che ci consentirà anche in futuro di comporre in modo equilibrato gli interessi antagonistici e le nostre specificità culturali. Proprio per questa ragione dobbiamo rilanciare l’importanza del dialogo e la capacità di ascolto in politica. Guai se soccombessimo alle tentazioni dell’intolleranza o alla congiura dell’immobilismo, poco importa se provengono dal nazionalpopulismo di destra o dalla demagogia sociale di sinistra. La storia di tutte le nazioni dimostra come il ripiegamento su sé stesse, l’isolamento ed il fanatismo che inventa nemici siano sempre stati forieri di calamità e sventure.

Il popolo svizzero ha saputo dimostrare grande determinazione e forza di volontà anche nei frangenti più critici. Due virtù che servono oggi per salvaguardare ciò che siamo riusciti a costruire, ma soprattutto per garantire anche domani sviluppo sostenibile, coesione sociale e regionale, equità, formazione e apertura. Benessere e buona qualità della vita presuppongono un elevato livello di competenze in tutti i settori trainanti della nostra economia, il che significa continuare ad investire risorse cospicue nella formazione (professionale e accademica) e nella ricerca. Ma significa anche predisporre un certo numero di incentivi a favore delle aziende per agevolare il primo impiego di personale locale che ha ultimato una formazione e allestire un piano di riqualificazione sociale che induca i giovani a scegliere professioni più aderenti alla domanda del mercato del lavoro, e penso all’edilizia, all’artigianato, alla sanità e al turismo.

Il compito più difficile che ci attende concerne le future relazioni con il nostro principale partner istituzionale e commerciale, l’Unione europea. La votazione del 9 febbraio scorso ha complicato notevolmente il quadro entro il quale queste relazioni dovranno articolarsi. Per poter rispettare fino in fondo la volontà popolare maggioritaria del nostro Paese (che intende pilotare autonomamente i flussi migratori verso la Confederazione) si rende indispensabile, in ottica svizzera, una rinegoziazione dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone. Nonostante la ritrosia di Bruxelles, il Consiglio federale deve insistere sulla via negoziale, anche se sarà un’impresa ostica conciliare il nuovo principio costituzionale dei contingenti e dei tetti massimi con quello della libera circolazione, che è un pilastro portante dell’intera costruzione europea. Con l’UE dovremo comunque trovare un modus vivendi. Visto il volume assai importante degli scambi di merci e servizi (ca. 1 miliardo di franchi ogni giorno lavorativo) è anche nell’interesse della controparte europea mantenere relazioni stabili e proficue con la Confederazione, non solo nell’applicazione delle politiche migratorie, ma anche nell’importante dossier relativo ai negoziati sui rapporti istituzionali tra Svizzera ed Unione, evitando restrizioni inaccettabili alla sovranità svizzera. Da parte nostra dobbiamo dar prova di realismo nel valutare i rapporti di forza, ma allo stesso tempo dobbiamo anche evitare di farci condizionare da complessi di inferiorità fuori luogo. Non dobbiamo negoziare con il cappello in mano, bensì con la consapevolezza e l’orgoglio delle nostre carte preziose da giocare in questa delicata partita.

Concludo il mio intervento con alcuni auspici.

La Svizzera, nonostante le difficoltà incontrate negli ultimi tempi, ha ancora molti assi nella manica. Determinante sarà la nostra capacità di continuare anche in futuro ad essere coraggiosi, mettendo in cantiere grandi progetti avveniristici: l’esempio di Alptransit che sarà inaugurato nel corso del 2016 è emblematico.

Sarà richiesto un impegno ancora più forte da parte di coloro che hanno deciso di assumersi responsabilità politiche, perché i prossimi anni saranno decisivi. Ma anche coloro che non svolgono politica attiva non potranno limitarsi a delegare sempre ad altri tutte le decisioni: la democrazia infatti si alimenta e si mantiene vitale solo laddove c’è condivisione delle responsabilità e partecipazione – a cominciare dall’esercizio del diritto di voto – nell’osservanza delle rispettive competenze.

Anche nel nostro Paese, pubblico e privato saranno vieppiù chiamati a collaborare. Solo così saremo in condizione di fronteggiare i pericoli di esclusione che incombono sui più deboli in virtù delle dinamiche ormai irreversibili dell’internazionalizzazione dei mercati: la rete sociale dovrà essere adeguata affinché questo genere di rischi venga minimizzato e possibilmente neutralizzato, senza tuttavia pesare eccessivamente sulle spalle dei contribuenti. Il che non è impossibile, anche se di primo acchito assomiglia molto alla quadratura del cerchio.

Anche il mondo imprenditoriale svizzero dovrà fare la sua parte: la globalizzazione dei diritti deve andare di pari passo con la globalizzazione dei doveri. L’etica degli affari, appaiata ad un’oculata gestione del rischio aziendale, non può essere considerata un optional, ma deve diventare un criterio-guida per le scelte strategiche ed operative, soprattutto fra coloro che rivestono funzioni di responsabilità. La logica di una crescita durevole e solida dovrà prevalere su quella miope ed irresponsabile del rendimento immediato ed a qualsiasi costo.

Care concittadine e cari concittadini, viva la Svizzera e viva il Ticino.

 



 



Autori

Giovanni Merlini

Giovanni Merlini