Note di bandella

NOTE DI BANDELLA Percorsi nel patrimonio musicale della Svizzera italiana

Questo libro è il frutto di un progetto di ricerca condotto dal Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona in collaborazione con il Dipartimento di musica della Scuola Universitaria Professionale di Lucerna. La pubblicazione ha beneficiato del sostegno di: Repubblica e Cantone Ticino, Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport Landis & Gyr Stiftung Fondazione dott. Ferdinando e Laura Pica Alfieri, Lugano Fondazione ing. Pasquale Lucchini Fondazione Ulrico Hoepli, Zurigo Banca dello Stato del Cantone Ticino Heinrich & Julie Sandmeier-Streiff-Stiftung Società per la musica popolare in Svizzera Città di Mendrisio Patriziato di Ascona © 2019 Centro di dialettologia e di etnografia viale Stefano Franscini 30a CH-6500 Bellinzona Coordinamento editoriale e revisione dei testi Andrea a Marca, Francesca Luisoni e Paolo Ostinelli Traduzione dal tedesco (testi di J. Rühl) Christina Müller, Bellinzona Grafica e impaginazione Manuela Bieri, Gravesano Stampa e fotolito Salvioni arti grafiche, Bellinzona Finito di stampare novembre 2019

Indice Prefazione di Carlo Piccardi Johannes Rühl La bandella nel contesto della ricerca sulla musica popolare a nord e a sud delle Alpi L’eredità comune del Romanticismo La bandella tra folclore e folclorismo Il mito della Volksmusik Dibattiti sulla musica popolare in Italia Oltre ogni modello interpretativo Aldo Sandmeier Note di bandella. Lineamenti di storia di una tradizione vivente della Svizzera italiana Le origini di una tradizione vivente Fiumi e affluenti, il corso della storia Segni di crisi «Ossigeno alla bandella!» Emanuele Delucchi «Che vi sia, ciascun lo dice...». Elementi per un profilo musicale delle bandelle Ruoli Repertorio Da capo Esempi di partiture Johannes Rühl Tra musica popolare e colta. Tracciati di piccole formazioni di fiati al sud delle Alpi L’ampia diffusione delle piccole formazioni di fiati La bandella ticinese Tra sala da concerto e osteria Variazioni multiformi dello stesso fenomeno Una musica sui generis La storia non è finita Repertorio delle bandelle nella Svizzera italiana Fonti delle illustrazioni Note biografiche degli autori Ringraziamenti 3 11 31 131 171 213 222 224 225

3 Prefazione La mobile identità della bandella Ricordo molto bene, all’inizio degli anni Settanta, l’arrivo in Ticino di Brigitte Bachmann-Geiser – la nota studiosa bernese di folclore musicale svizzero – che mi trovai ad accompagnare alla ricerca di un antico strumento a fiato bleniese fatto di corteccia (la liòrgna), la quale mi incuriosì per l’accalorato interesse per le bandelle. L’illustre ricercatrice – autrice di studi sul corno delle alpi, sullo jodel e della recente Geschichte der Schweizer Volksmusik oltreché docente universitaria e fondatrice dello Schweizerisches Zentrum für Volkskultur di Burgdorf – intendeva portare una bandella a Washington, non a una manifestazione di un’eventuale Pro Ticino del luogo quindi, ma proprio a un festival internazionale di musica folclorica nel contesto della partecipazione svizzera della cui programmazione aveva assunto l’incarico. Com’era possibile, mi chiedevo, presentare come emblema della nostra cultura popolare una bandella di quelle che accompagnano le risottate a carnevale (o peggio che animano ‘servilmente’ le cene degli incontri con le personalità confederate che ci fanno l’onore di una visita a sud delle Alpi)? Proprio l’immagine canonica del tanto vituperato “popolo allegro” veniva in tal caso considerata come manifestazione di una musica capace di rivelare radici autentiche e valori originali. Di lì a poco infatti, con l’arrivo di Marco Solari alla testa dell’Ente ticinese del turismo, ci sarebbe stata una significativa svolta nella promozione dell’immagine della nostra regione con la scelta di abbandonare i luoghi comuni (dei boccalini, delle zoccolette e delle bandelle appunto) per affermare la dignità più ambiziosa del “Ticino terra d’artisti”, anche a seguito del noto polemico intervento di Virgilio Gilardoni (Le immagini folcloriche del “popolo allegro” nella prima età del turismo ferroviario, in «Archivio Storico Ticinese», 88, XXII, dicembre 1981), che avrebbe denunciato l’«assalto svizzero e mitteleuropeo ai ‘balconi del sole’ della Südschweiz», i «riflessi delle prime fortune alberghiere nel fenomeno del ‘meretricio’ culturale», le «dimissioni di ogni vera dignità intellettuale nella cultura media erroneamente detta ‘popolare’». In verità, situata in un quadro più ampio, tale problematica riguardava i rapporti culturali tra nord e sud dell’Europa, cioè il modo in cui il Verismo musicale italiano (Mascagni, Leoncavallo, Floridia, Spinelli, ecc.) si era imposto nei paesi tedeschi sollecitando l’interesse per il caratteristico, per il “colore locale”, nei termini del vitalismo e dell’esuberanza canora riscontrabili nel rapporto “esotico” che dall’estero venne a instaurarsi anche con la realtà italiana, la quale d’altra parte

4 non mancò di fare da traino a quel processo coltivando (e non solo fornendo) la stessa tipologia di immagini (si pensi allo scugnizzo napoletano, al gondoliere veneziano, ai Canterini di Romagna da cui derivarono il nome i Canterini del Ceresio fondati nel 1932). Attraverso Roberto Leydi venimmo invece a sapere innanzitutto che la bandella è un fenomeno localizzato nella zona dei nostri laghi, una pratica strumentale di campagna assolutamente originale, anche se il repertorio di ballabili a cui fa riferimento è di città. Imparammo inoltre che la specificità popolare non sta solo e sempre nella struttura costitutiva di tali espressioni, ma anche nei modi e nei comportamenti, a volte solamente nella “pronuncia” di messaggi musicali che il tempo ha alterato (in un certo senso corrompendoli), sollecitandoci a coglierne la verità al di là dell’univocità delle stratificazioni formali (e quindi di senso) presenti nello stesso prodotto. In particolare tale manifestazione, radicata nella pratica di strumenti a fiato ridotta in piccoli organici chiamati a suonare “da ballo” ancora viva alla nostra latitudine, vi ha assunto un valore particolare in quanto sopravvivenza di un’abitudine che sotto altri nomi (bandino, fanfarino, quintétt) era diffusa in vaste zone dell’area alpina e prealpina italiana fino all’Ottocento. Proprio Leydi in quegli anni Settanta era impegnato a valorizzare il Concerto Cantoni fondato a metà Ottocento nel parmense dal suonatore di flicorno Giuseppe Cantoni, una formazione di strumenti a fiato composta da 10-11 esecutori in quegli anni ancora attiva tanto da essere ospitata in un’edizione dell’Autunno Musicale di Como. In fondo si trattava di una bandella allargata, sorta in ambito campagnolo per rendere fruibile alle classi subalterne la musica da ballo di origine urbana (valzer, polca, mazurca, ecc.) fino ad allora presente solo nelle case dei nobili e dell’alta borghesia che potevano permettersi di assoldare i musicisti. Tale pratica si diffuse rapidamente nelle feste contadine che si svolgevano in occasione dei raccolti (mietitura e vendemmia) e delle sagre paesane. La novità da essa rappresentata riguardava il passaggio dai balli “saltati”, collettivi (giga, furlana, trescone, monferrina, ecc.), a quelli moderni di coppia di origine cittadina. Tale fatto spiega il motivo per cui per molto tempo tale pratica non godette dell’opportuna considerazione e dei necessari approfondimenti. Lo scoraggiava la visione schematica impostasi agli inizi presso gli indagatori del mondo popolare, tesi alla ricerca della pretesa autenticità del messaggio, tendendo ad escludere ciò che si rivelava prodotto di contaminazione tra realtà distinte e diverse. Non è quindi un caso che la bandella si sia imposta all’attenzione di Roberto Leydi proprio come riflesso di una realtà in movimento, nel quadro di un’evoluzione meritevole di essere colta nella sua dinamica (principio di cui metodologicamente si dovrebbe sempre tener conto in questo campo di ricerca riferito a una realtà caratterizzata dalla mobilità, estranea alle formalizzazioni e calata nel continuo divenire del vissuto). A questo punto dovremmo chiederci come

5 mai tale tradizione si sia conservata alla nostra latitudine, mentre è praticamente scomparsa nelle aree italiane settentrionali. Qualcuno ha fatto risalire il fenomeno al contributo degli emigranti, come segno di attaccamento al paese d’origine che a tale sodalizio assegnavano la funzione di tenere vivo il senso comunitario, oltre che giungendo ad alimentarlo con innesti provenienti dalle esperienze acquisite attraverso i più recenti modelli urbani in fatto di gusto e di abitudini. Una spiegazione più convincente si affaccia se poniamo mente alla pratica delle bandelle come ramificazione della realtà della banda, che in Ticino notoriamente prese piede parallelamente alla sua costituzione come cantone, cioè in quanto Stato, per certi versi ad esso integrata. Va ricordato quindi che la Svizzera moderna fu costituita nel quadro napoleonico, sulla base del principio di cittadinanza, della legittimazione proveniente dal basso affermata dai diritti acquisiti attraverso la Rivoluzione francese. In proposito è importante rilevare che a Parigi, già all’indomani della presa della Bastiglia, un ufficiale di basso rango fu incaricato dalla Guardia nazionale di organizzare un complesso musicale destinato a condecorare le cerimonie che da quel momento in poi si susseguirono a mobilitare i cittadini, chiamati attraverso tali occasioni a prendere coscienza della sovranità conquistata. Bernard Sarrette (in seguito nominato capitano), come direttore dell’Institut national de musique deputato alla formazione degli strumentisti della Guardia nazionale appunto (ma poi anche delle bande del nuovo esercito di popolo), diventato poi il Conservatorio di Parigi, con la collaborazione di compositori quali François-Joseph Gossec, Étienne Nicolas Méhul, Charles-Simon Catel e di Luigi Cherubini con i loro inni, marce e pezzi celebrativi, diede vita al repertorio chiamato ad animare le adunanze civili della nuova realtà repubblicana, un repertorio non a caso per orchestre di fiati. A quel punto non si trattava più di una dipendenza simile a quella che ai musicisti derivava dal servizio prestato ai poteri dell’ancien régime, come abbellimento fastoso della sua immagine irradiante la grandezza ammutolente del sovrano che si imponeva per grazia di Dio, bensì di un legame in grado di raccogliere lo slancio della comunità nell’edificazione della realtà repubblicana, intesa appunto come partecipazione del popolo alle scelte che avrebbero determinato il suo destino. La banda ne diventò la voce, non solo e non tanto nel senso che il suono degli strumenti a fiato si apparenta a quello della voce umana per lo stesso principio di fonazione, quanto per il fatto di costituire essa una manifestazione alternativa, nella misura in cui gli strumenti ad arco nella loro delicatezza decorativa recavano il segno dei sussiegosi e a volte vacui modi aristocratici. La franchezza della sonorità della combinazione di legni e ottoni, i primi dal suono penetrante e i secondi dalla vibrante e severa monumentalità (in un orientamento comunicativo aperto sui grandi spazi delle piazze e dei luoghi di riunione all’aria aperta), si qualificò quindi fin da principio come espressione del nuovo

6 no ha scontato fin troppo nei particolarismi e nei campanilismi ancor oggi non del tutto superati, rimane comunque il patrimonio più rilevante, inalienabile e quindi ancora fruttuoso della nostra conquistata indipendenza. Il fatto che nel confronto spesso aspro tra i partiti nascessero a sostegno bande “liberali” e bande “conservatrici” è rivelante del radicamento della dialettica democratica, in cui come si vede i complessi musicali rivestirono un ruolo fondamentale. Il legame con l’istituzione è quindi costitutivo per la banda, non a caso ancor vivo e riconosciuto oggi al punto da supplire a volte, col suo stentoreo risuonare che si richiama alla convinta solidarietà di popolo di quella lontana origine, al venir meno dei motivi di coesione sociale che la vita moderna ha sempre più difficoltà a identificare in rapporti demografici modificati (per non dire sconvolti) dalla mobilità della popolazione e dalle varie forme di emigrazione e di immigrazione in un contesto atomizzato, in cui è vieppiù problematico trovare il denominatore tra la dimensione del pubblico e gli interessi particolari. Senza voler fare della retorica richiamandoci a un luogo comune, attraverso l’organizzazione armoniosa dei suoni esibiti la banda è ciò che più specificamente realizza la metafora del collettivo, della concordia tra gli interessi di parte, chiamata a suggellare in forma organica la viva realtà civile. Non per niente il termine francese che la designa è orchestre d’harmonie, oppure semplicemente harmonie, indicando nel sinonimo l’emergenza del valore contesto democratico, della fede nello sforzo collettivo di elevazione a ideale civile. Orbene non è un caso che lo stesso suon di banda abbia addirittura accompagnato sul nascere il piccolo nostro stato cantonale, se è vero che a Lugano già nel 1797 al corpo dei volontari costituiti dopo la fine del dominio svizzero fu affiancata una banda. Lo testimonia visivamente il dipinto di Rocco Torricelli conservato al Museo d’arte della Svizzera italiana che rappresenta i volontari schierati in Piazza Grande dove, sulla sinistra, figura un piccolo complesso di strumenti a fiato. È possibile contarvi una dozzina di musicanti (per l’esiguità potremmo considerarlo una bandella allargata), ma soprattutto in uniforme, azzurra come quella dei volontari armati. Fu quello il nucleo originario da cui nacque la Civica Filarmonica di Lugano, civica appunto come tutte le bande del Ticino che nel termine dichiarano l’apparentamento alla realtà istituzionale del comune da cui le veniva il riconoscimento. A questo riconoscimento (concretizzato nei contributi finanziari che per tradizione le amministrazioni comunali devolvono alle società filarmoniche) risale l’operatività delle nostre bande, la loro presenza alle manifestazioni pubbliche e ufficiali, cementata nel contesto partecipativo della democrazia diretta nella mobilitazione permanente della cittadinanza, tipica della realtà svizzera. È fuor di dubbio che la funzione della banda, la sua immediata associazione alla nascita del comune moderno, sia stata primaria nell’edificazione di una coscienza civile che, se il Tici-

7 simbolico. Questo spiega anche l’immediato imporsi dell’abitudine delle nostre bande a condecorare anche le manifestazioni religiose, superando le soggiacenti tensioni politiche. A volte, in assenza della banda, era appunto la bandella ad assumere tale compito, come documenta il caso de La Tremonese chiamata ad accompagnare le processioni e i riti per la Pasqua, per Sant’Agata, per la Madonna del 15 agosto, rivelando l’estensione della sua portata a simbolo della comunità dei cittadini, fattore di partecipazione alla vita pubblica e di unione, al di là della funzione ricreativa comunque già di per sé significativa come specchio della dimensione collettiva del vivere. In questo senso risulta significativa la volontà testamentaria di Roberto Leydi, la figura di maggior rilievo che si è occupata della musica popolare dalle nostre parti, di richiedere espressamente l’esecuzione del valzer Miserere da parte della bandella di Tremona alla propria cerimonia funebre. Carlo Piccardi

Note di bandella Lineamenti di storia di una tradizione vivente della Svizzera italiana di Aldo Sandmeier 31

34 Per la Festa federale di musica popolare svoltasi a Bulle (FR) dal 5 al 7 luglio 2003, Swissinfo pubblica un articolo di presentazione in cui mette in evidenza un ritorno di interesse per la musica folcloristica, che trova riscontro in trasmissioni radiofoniche e televisive, articoli di giornali, concerti e vendite di dischi. Vi si riporta anche un’intervista a Pietro Bianchi, etnomusicologo e musicista ticinese, secondo il quale nella Svizzera italiana «la musica popolare viene considerata alla stregua del jazz, del tango, del rebetico. Ossia come un valore culturale che si è tramandato oralmente e che si arricchisce nel confronto con la vicina Italia, in particolare con la Lombardia e il Piemonte, dove si parla la stessa lingua anche dal punto di vista musicale»1. Ma quante sono le bandelle in Ticino e in Mesolcina? Secondo i dati pubblicati dall’Osservatorio culturale del Cantone Ticino e da Luganoturismo nel 2016 se ne contavano 15. E sono: la Bandèla da l’Aldo, Mendrisio; la Bandella di Lugano; I Bagiöö, Gandria; la Bandella dei soci, Bironico; la Bandella di Montagnola; la Bandella di Bedano; la Bandella dell’Alto Malcantone, Vezio; la Bandella di Arogno; la Bandella Curbatt, Riva San Vitale; la Bandella La Castellana, Bellinzona; la Bandella Betonica, Brione sopra Minusio; la Bandella 4 Gatt, Mesocco; la Bandella Fiorenzana, Grono; la Bandella I Nostalgici, Cadenazzo e la Bandella del Ritom, Faido. Certo non sono molte! Ma negli ultimi anni in Ticino si sono registrati dei segnali positivi. Il 17 dicembre 2016 alla Casa Cavalier Pellanda di Biasca viene presentato il disco Vüna bèla! Panorama popolare ticinese, una raccolta ragionata di musiche popolari curata da Silvia Delorenzi-Schenkel2 nell’ambito di un progetto nato a nord delle Alpi per l’etichetta discografica Musiques Suisses, creata nel 1987 dal Percento Culturale Migros per testimoniare la ricchezza e la diversità della vita musicale svizzera attraverso una sezione dedicata alla nuova musica folk. Secondo Zeno Gabaglio, violoncellista e compositore ticinese che ha recensito questa pubblicazione, il disco permette di superare il solco che separa la musica nella Svizzera italiana – generosissima ma indifferenziata in fatto di stagioni, festival, concerti, dischi, trasmissioni, interviste – dalla muScacciapensieri, zanfòrgna, strumento molto diffuso in passato anche nelle valli alpine.

35 sica della Svizzera italiana in quanto propone forme d’arte pensate, create e realizzate in questo caso nel Cantone Ticino. Si tratta per Gabaglio dello «strumento che effettivamente mancava a chiunque volesse capire qualcosa di più del modo in cui il Ticino e i Ticinesi hanno saputo mettere in musica – cioè nella musica di matrice popolare – loro stessi»3. Si può ben definire la realizzatrice del progetto, Silvia Delorenzi-Schenkel, una vera «traghettatrice verso una meta difficile come quella di un ritratto oggettivo e comprensivo della musica popolare ticinese», infatti «nel breve volgere delle 18 tracce del disco è miracolosamente riuscita a comporre un articolato e seducente mosaico di musica vocale, corale e strumentale; nuova e tradizionale; in dialetto (ovvero nei vari dialetti) e in italiano: del Sopra e del Sottoceneri»4. Nel panorama sonoro di Vüna bèla! si ascolta anche la bandella I Bagiöö nei pezzi Sisina e Chitarra ticinese. Domenica 2 aprile 2017 al Teatro sociale di Arogno va in scena il gruppo Chilometro zero con La musica delle bandelle ticinesi nella tradizione e nel presente. Il denso programma, con quattordici brani, affascina un pubblico numeroso e appassionato in un incontro che non è un concerto, piuttosto una presentazione da parte di Emanuele Delucchi, suonatore di clarinetto e guida del quintetto, beninteso di fiati come ci si può aspettare da una bandella. La cadenza dei pezzi prende avvio da Zanett, la marcia che si rifà al tradizionale carnevale dei bambini di Arogno. E poi, sempre con l’intervento a tratti arguto del maestro, Giovanni Antonio Vanoni, Figura di presepe: pastore che suona la zampogna, 1883.

36 si succedono: Quela dal Silvano, Foro, Valzer dal Noldu, Mi-la-do-mi, Mazurka no. 2, Valzer Dino, Just a closer walk with thee, Valzer Miserere, Non parlare al conducente della posta delle Alpi, Al largo di Stoccolma non prendo il wireless, Che ridere, Mazurka e Crusch Alba. In una geografia avventurosa di grande respiro tra il vicino e il lontano, per alcuni brani la bandella lascia la normale pratica dell’esecuzione a memoria e a orecchio per affidarsi alla lettura di uno spartito, in un viaggio musicale in cui si ritrovano alcuni personaggi del passato, come Hanneli Christen (1899-1976), la laboriosa raccoglitrice di numerosi documenti sulla musica popolare svizzera, o l’emigrante di Arogno che fa ritorno a casa nella Mazurka no. 2. Le origini di una tradizione vivente La geografia musicale del Cantone Ticino è caratterizzata, analogamente al resto dell’Europa, da repertori vocali e strumentali. Tralasciamo in questa sede lo sviluppo della pratica del canto e dei suoi repertori, per concentrarci sulla musica strumentale. Gli strumenti della tradizione musicale ticinese sono le pive (versioni regionali delle cornamuse), i violini – sostituiti dalla prima metà dell’Ottocento dalla fisarmonica – e gli scacciapensieri. Dalla fine del Settecento fanno la loro comparsa gli strumenti tipici di bande e bandelle, per poi difLa Bandella di Vezio, 1900 circa. Attorno alla grancassa è ritratta una dozzina di musicisti, tra i quali figura anche il clarinettista Olimpio Boschetti, uno degli animatori della bandella, passato poi alla grancassa nella Filarmonica Alto Malcantone. fondersi sul territorio cantonale nel corso del secolo successivo5. In Svizzera le formazioni popolari di fiati sono: la Buremusig nella Svizzera centrale, musica contadina, paesana, in cui ritroviamo, denominata secondo il numero dei membri, la Vierer-, Sächser-, Nünermusig (complessi rispettivamente di quattro, sei o nove membri); la bandella in Ticino; lo Stägref (o Stegreif) in Appenzello. Si tratta in tutti i casi di cosiddette improvisierende Kleinformationen, cioè di piccole formazioni che si caratterizzano per il

37 suonare a memoria motivi e danze tradizionali6. L’origine di queste formazioni non è chiara. La prima ipotesi, formulata dall’etnomusicologo Max Peter Baumann, è che queste nascano come un’emanazione delle bande musicali. «Il diffondersi dei primi ottoni [a pistoni] verso il 1820 portò alla fondazione di diverse formazioni bandistiche. A dipendenza del numero di strumenti a fiato disponibili, numerose bande di paese si unirono in Vierermusig, Sechsermusig o Neunermusig. In Ticino questi complessi erano noti come bandelle e formati per esempio da un clarinetto, una tromba, un trombone, un bombardino, un flicorno e un basso tuba, spesso accompagnati da una grancassa»7. Si può esprimere qualche riserva sulla frequente presenza nella bandella di una grancassa, strumento a percussione, assieme a trombe, tromboni, corni, flicorni e tube. Siamo a conoscenza solo di una fotografia che ne raffigura una identificata dalla dicitura con la «Bandella Vezio», formazione nata nei primi anni del Novecento e sciolta con l’inizio della Prima guerra mondiale8. La seconda ipotesi, invece, è formulata da Marcello Sorce Keller, secondo il quale l’origine delle bandelle risalirebbe alla fine del Settecento, dunque prima della proliferazione bandistica di cui parla Baumann9. Le due proposte comportano una differenza di pochi decenni, proprio nel periodo a cavallo fra Settecento e Ottocento che portò alle terre ticinesi e alla Svizzera tutta rilevanti mutamenti politico-amministrativi. Un testo fondamentale per esplorare il tema delle bandelle è il volume sulle bande musicali nella Svizzera italiana pubblicato nel 1981 da Giuseppe Milani (1936-1997), i cui dati sono stati poi ripresi da Graziano Ballerini nel numero monotematico di Bloc notes dedicato alla musica nella Svizzera italiana dato alle stampe nel 200310. Il volume di Milani si basa su un censimento delle bande effettuato grazie all’invio di questionari alle cancellerie dei comuni del Cantone Ticino e del Grigioni italiano con la richiesta di informazioni sul tema. Ciò gli ha permesso di identificare 63 bande ancora attive nel 1981, che nella pubblicazione presenta ad una ad una in ordine alfabetico per distretto. Milani raccolse numerosa documentazione storica, reperita attraverso il contatto con ogni singola società, e riuscì a risalire a 94 formazioni scomparse, tra cui corpi musicali fondati da ticinesi nella Svizzera interna, alcuni gruppi del Grigioni italiano e anche qualche bandella11. Il progetto editoriale è rimasto purtroppo incompiuto, infatti l’obiettivo dell’autore era quello «di stampare due volumi: il primo sulle bande attive e il secondo sulle bande scomparse, le bande militari, le bande formate da ticinesi nella Svizzera interna, le bandelle e i gruppi di tamburini affiliati alla Federazione cantonale»12. Anche le bandelle quindi! A quegli stessi anni risale il lavoro di ricerca inedito dedicato alla bandella da Gianni Zanotti

38 Rocco Torricelli, Li Volontarj su la Piazza di Lugano 1798, inchiostro e acquarello su carta incollata su tavola, dettaglio, 1800 circa. (1945-2000) per il conseguimento della patente di abilitazione all’insegnamento della musica alla Scuola media. Zanotti – diplomato in tromba e pianoforte e direttore di coro, appassionato di musica popolare ticinese – nel suo testo analizza e approfondisce il tema, consapevole di non aver che pochi materiali a disposizione, arrivando comunque a parlare della nascita della bandella, dei costumi, dell’organico e del repertorio13. A lui rimane il merito di aver considerato il contributo che diedero le formazioni militari alla vita musicale in Ticino, sebbene il nostro Cantone, analogamente ad altri, avesse sciolto il proprio corpo musicale militare già entro la metà dell’Ottocento14. La banda, intesa come corpo musicale civile, è infatti rimasta in sott’ordine rispetto ai raggruppamenti militari fino al 1862 quando, a causa del disinteresse delle autorità militari per la musica bandistica, venne fondata la Società svizzera di musica (oggi Associazione bandistica svizzera). Inoltre nella prima metà dell’Ottocento all’evoluzione del quadro istituzionale si è sovrapposta la mutata tecnica di costruzione degli ottoni, con l’introduzione di strumenti a pistoni che hanno permesso la creazione di strumenti melodici in metallo e aperto così la strada a una nuova forma di musica per fiati sia militare sia civile15.

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