Vai al contenuto principale Vai alla ricerca

La storia

L'Atto di Mediazione e la faticosa costruzione del Cantone

Due le date indissolubilmente legate: il 1798, l'anno dell'emancipazione dei baliaggi a sud del Gottardo e il 1803, l'anno in cui nasce lo Stato ticinese.   Gli avvenimenti di quel periodo intricatissimo non sono agevoli da raccontare, anche perché hanno subìto una forte rielaborazione in chiave patriottica con l'intento di indicare il processo di emancipazione  e di aggregazione alla Confederazione elvetica prima, e di unificazione cantonale poi, come un'espressione genuina della volontà degli abitanti degli ex-baliaggi.

Non fu proprio esattamente così: le sorti delle terre ticinesi nel 1798 e nel 1803 non furono decise né da un'unanime volontà né da una sorta di lealismo elvetico incondizionato. I baliaggi non agirono, ma reagirono, e le sorti degli abitanti e delle terre ticinesi furono decise dalle vicende esterne, dalla Grande Storia.

L'adesione alla Svizzera  fu imposta e non fu una libera scelta, e le parole dei francesi nel marzo nel 1798 non lasciavano dubbi: La precisa intenzione della Repubblica francese è che voi siate liberi, ma che facciate parte integrante della Repubblica Elvetica. [1]

Un giornale ticinese scrisse, a ragione, che noi fummo riuniti più per forza del caso che per propria virtù: senza Napoleone e senza l'Atto di Mediazione il Ticino non sarebbe  esistito. [2]

Coloro che nei primi dell'800 non risparmiavano elogi al Primo Console,  Protettore e  Padre della Patria, lo facevano con intenti adulatori, ma  coglievano nel segno e riconoscevano - come fece il Gran Consiglio il 20 maggio 1803 - che al Bonaparte era dovuta l'esistenza politica del Cantone Ticino.

Il Ticino fu dunque la conseguenza di un matrimonio forzato e non voluto fra territori giustapposti e popolazioni diverse, e più di una volta si rasentò il divorzio fra continui litigi.

E' questo un dato di partenza essenziale per capire le difficoltà incontrate nell'edificazione dello Stato cantonale.

Prima del 1798  la sudditanza era  accettata, e perfino gradita, perché il governo degli Svizzeri salvaguardava l' "antica democrazia dei padri": gli Illustrissimi Signori Svizzeri  certamente non promossero opere di progresso e di interesse pubblico (non costruirono né scuole, né strade, né ospizi) , ma  questo immobilismo, se d'un canto manteneva le  popolazioni dei baliaggi separate e arretrate, dall'altro salvaguardava le antiche libertà e i sacri statuti. In sostanza, in gran parte della popolazione, le libertà dei francesi, più che suscitare aneliti irrefrenabili di  emancipazione, sollevarono paure e timori e i rumori, diffusi dagli émigrés trovavano terreno fertile: si temeva per la religione dei padri, si temevano i reclutamenti, si temevano le leggi che distruggevano le antiche usanze, e anche i benestanti trepidavano per le loro sostanze. E quanto avveniva nella vicina Lombardia sembrò confermare le paure. Quindi al di fuori di una piccola cerchia di fautori delle libertà francesi, nessuno voleva cambiare.

Teniamo ben presente questa realtà e potremo così capire perché i fatti di Lugano del 15 febbraio del 1798 - che videro i Volontari luganesi, che avevano giurato fedeltà ai  balivi, ributtare a lago i cisalpini filofrancesi - furono rapidamente manipolati  in funzione patriottica, tanto da perpetuare la falsa immagine di un popolo che, dopo aver rifiutato la secolare sudditanza e reclamato la libertà degli Svizzeri, aderì entusiasticamente al Corpo Elvetico [3]. Ecco come andarono invece le cose: il collasso dei baliaggi innescò immediatamente un impressionante e violento processo di disgregazione e ogni regione guardò al proprio tornaconto:  la Val Maggia rimpianse i vecchi padroni,  alcune pievi rurali si dichiararono ostili ad ogni mutamento,   nella Leventina c'era chi voleva unirsi a Uri, Riva S. Vitale voleva l'adesione alla Repubblica Cisalpina, e alcuni ex-baliaggi pretendevano addirittura di governarsi da soli.

L'avversione alla Repubblica Elvetica non fu tanto il rifiuto di un modello imposto con la forza dallo straniero quanto piuttosto la reazione a un modello che si scontrava con uno dei caratteri dominanti delle terre a sud del Gottardo: la separatezza e la frammentazione  dei territori, delle leggi, delle coscienze. La  Repubblica Elvetica trasformò i sudditi in cittadini e molte leggi prefigurarono l'avvento dello Stato moderno, ma ebbe un grave difetto: antepose la libertà individuale alla libertà collettiva e in nome dell'uguaglianza politica e della sovranità nazionale distrusse d'un sol colpo la democrazia corporativa , le pratiche di autogoverno fondate sugli statuti e le separatezze regionali.

Fino al 1798 gli abitanti dei baliaggi furono sudditi degli svizzeri, ma il rispetto degli statuti comunitari li faceva sentire liberi; dopo il 1798 erano citoyens ma si sentivano sudditi perché le nuove leggi dello Stato li avevano privati delle antiche autonomie . In poche parole qui non si conosce il valore della libertà, concludeva sconsolato un funzionario dell'Elvetica [4]. Più semplicemente l'idea di libertà era diversamente intesa e per buona parte degli abitanti dei baliaggi essa si risolveva nel fare del passato un eterno presente. Quindi nel 1798 gli abitanti dei baliaggi  la storia, più che farla, la subirono: l'emancipazione fu vissuta come una brutale menomazione,  l'aggregazione all'Elvetica come una imposizione che li mise  di fronte alla logica  di un potere statale che rompeva bruscamente con il passato. Sta qui la contraddizione alla base della storia cantonale. L'Elvetica, centralizzatrice e unificatrice, metteva drammaticamente a confronto innovazione e tradizione senza soluzione di continuità.  Le reazioni di rifiuto, nel Ticino come altrove, furono sicuramente alimentate dalle nuove leggi  che si urtavano con la storia (si pensi alla grande conquista del droit de cité helvétique e del libero domicilio che eliminava la  distinzione fra vicini e semplici residenti e cancellava i privilegi corporativi  compromettendo la delicata gestione dei beni comuni; alle imposte dirette, alle coscrizioni militari, all'obbligo di redigere i catasti , alla libertà di culto considerato un attentato alla religione dei padri) ma, più ancora, furono provocate dall'idea stessa di Stato che, in un modo o nell'altro, presupponeva un potere sovraregionale limitatore delle autonomie locali. L'Elvetica risultò delegittimata fin dall'inizio perché all'unificazione degli spazi e delle leggi non corrispondeva l'unificazione delle coscienze. La constatazione fu fatta sia dai prefetti dell'Elvetica sia successivamente dai primi rappresentanti del governo cantonale: non bastava elaborare buone leggi per tutti, bisognava costruire anche delle coscienze che in esse si riconoscessero, e non era impresa facile. Ecco quindi la reticenza di molti ad abbandonare il vecchio statuto di baliaggio e la resistenza endemica al nuovo regime. Il prefetto Franzoni di Lugano  osservò, nel 1800, che il dominio degli svizzeri si adattò bene al paese perché lasciò intatte le istituzioni del passato [5]: e infatti alcuni ex-baliaggi, costretti ad aderire all'Elvetica, chiesero subito inutilmente ai francesi di potersi  governare da soli, affinché l'acquistata libertà loro non divenga gravosa [6]: Repubblica Elvetica sì, ma status quo ante. Il liberale Zschokke sintetizzò all'osso il problema: una parte non può, una parte non vuole afferrare l'inevitabile necessità e il valore del sistema unitario [7].

Con l'Elvetica si prefigurarono in nuce due diverse concezioni dello Stato che si ribalteranno sull'epoca successiva dando origine ad aspre contese: da una parte lo Stato concentratore, livellatore, omogeneizzatore in nome della sovranità nazionale e dell'uguaglianza politica, dall'altra  lo Stato debole, a bassi costi, a sovranità limitata, con scarse competenze e con una funzione complementare rispetto al primato delle autonomie regionali e locali. Segnavano la contrapposizione fra due mondi, il primo all'insegna dell'unificazione presupposto della modernizzazione politica ed economica, espressa dai centri e dai nuovi ceti in ascesa, il secondo fondato sul particolarismo della tradizione.

La Repubblica Elvetica aveva riunito gli  ex-baliaggi  nelle prefetture di Lugano e Bellinzona e non funzionò.  Con l'Atto di Mediazione Napoleone fece della Svizzera una Confederazione di 19 cantoni autonomi i cui rappresentanti si riunivano in una Dieta federale con scarsissime competenze. Il Ticino fu eretto alla dignità di Cantone suddiviso in 8 distretti (gli ex-baliaggi) e 38 circoli. Il potere fu affidato a un Gran Consiglio di 110 membri eletti dal popolo dei cittadini attivi e a un Piccolo Consiglio di 9 membri eletti dal Gran Consiglio. Bellinzona diventò la capitale del nuovo cantone.

L'Atto di Mediazione risultò un compromesso fra vecchio e nuovo che, correggendo le esagerazioni del periodo precedente, riavvicinò le leggi alla tradizione: dal diritto di voto furono esclusi i non patrizi e i poveri, il diritto di domicilio fu reso più difficile, le imposte dirette furono abolite e i vecchi statuti riesumati. Si configurava in questo modo una sorta di federalismo delle regioni e l'Atto di Mediazione appariva come un tentativo di conciliare la modernizzazione e le esigenze dello Stato moderno con il retaggio della storia e della tradizione. Rispetto ai principi dell'Elvetica fu un passo indietro, ma sul piano politico fu un passo in avanti: l'atto di Mediazione fu il primo vero tentativo di superare quegli ostacoli che si presentano in qualsiasi paese che voglia intraprendere la via della modernizzazione [8].

Nel 1803  il Cantone nasceva come una fragilissima collezione di territori giustapposti e di popolazioni litigiose che non si riconoscevano né in una patria comune né in una comunanza di interessi . Ciò delegittimava le istituzioni e le leggi dello Stato cantonale ritenute  delle intrusioni indebite nelle realtà locali. Emblematico lo scoramento di un sindaco che nel 1804  dichiarò di non poter far applicare le disposizioni cantonali nel suo comune perché il corpo municipale non le riconosceva, e addirittura cinquant'anni dopo un deputato ricordava che  molti comuni erano convinti che la legge la dovevano fare loro e perciò era lecito ignorare le leggi cantonali [9].

I nostri governanti sapevano bene quale fosse il nodo da sciogliere: le strutture dello Stato cantonale c'erano, le leggi si facevano ma mancava la  loro legittimazione perché mancava il cittadino ticinese. Chiaro è il proclama del Governo del 26 maggio 1803:

10.0pt">Il nostro Cantone non consiste in un Popolo, che vivesse insieme da secoli, e fosse da un'antica abitudine legato alla stessa sorte. Egli è composto da otto Distretti, i quali sebbene poco lontani, variano nelle leggi, negli usi, e nei costumi. Noi ben sentiamo, che è d'uopo agire con prudenza, e con moderazione per appianare le difficoltà, prevenire i risentimenti, soffocare i pregiudizi e formare lo spirito pubblico [10].

Al landamano d'Affry, che sollecitava il Ticino a mettersi in moto,  i nostri rappresentanti segnalarono le tre piaghe da sanare: il particolarismo esacerbato e i regionalismi, la mancanza di una coscienza cantonale e un'idea di patria che non coincideva con il Cantone,  la paura di ogni cambiamento. Si trattava quindi, dopo il 1803, di costruire lo Stato attraverso il trasferimento allo stesso dell'obbedienza in precedenza dovuta ai detentori dei poteri locali. E si trattava contemporaneamente di costruire una coscienza cantonale. La politica del governo cantonale fin dall'inizio perseguì questi obiettivi: furono nominati i commissari di governo in ogni distretto e  giudici di pace in ogni circolo che dovevano costituire la lunga mano del potere centrale,  si iniziò la costruzione di  vie di comunicazione che dovevano unire le varie parti del paese, si promulgarono molte leggi che dovevano amalgamare le varie parti del Cantone cancellando le disparità e il guazzabuglio giuridico esistente. E si cercò soprattuto di plasmare una coscienza cantonale attraverso un profluvio di stemmi, stendardi, bandiere e divise. Furono perfino commissionate opere che dovevano suscitare salutari slanci patriottici, come l'enorme tela di Antonio Baroffio collocata nel 1805 nelle sale del Gran consiglio o il Dizionario degli uomini illustri del Cantone Ticino di Gian Alfonso Oldelli. E non si lesinò sulle feste civico-patriottiche.

Tuttavia la soluzione del problema posto nel 1804 ebbe costi altissimi perché per buona parte dell'Ottocento lo Stato continuò ad essere delegittimato. Ancora a metà secolo c'era chi considerava lo Stato, con i suoi funzionari e le sue leggi, come una  sorta di aguzzino che pretendeva di regolare le coscienze come delle dogane [11].

E infatti tante leggi emanate  per disciplinare l'agricoltura, incrementare i commerci, promuovere l'istruzione, o non erano applicate o erano semplicemente ignorate. Insomma lo Stato continuò ad essere  sentito come una costruzione artificiosa  perché  mancava un'identità cantonale. Questa incongruenza fu percepita anche dal grande Cesare Laharpe: nel 1824 scriveva all'amico Vincenzo Dalberti che non era possibile conservare le istituzioni senza uno spirito pubblico.

La cruenza della storia politica cantonale per buona parte dell'Ottocento si spiega proprio per il fatto che il contenzioso posto nel 1803 con l'Atto di Mediazione restava irrisolto: l'idea di uno spazio  cantonale retto da istituzioni e leggi omogenee posta nel 1803 continuava ad essere frenata dai feroci regionalismi e da una prevalente mentalità che circoscriveva l'idea di patria al proprio comune, alla propria valle. Non a caso il Franscini proponeva, con amara ironia, di erigere la capitale cantonale sul Monte Ceneri e magari di chiamarla Concordia [12].

L'importanza dell'Atto di Mediazione  non sta tanto, a mio avviso, nel fatto che grazie alla volontà napoleonica il Ticino diventò cantone a tutti gli effetti, quanto nel fatto che innescò una duplice contrapposizione  politica, economica, sociale, culturale che condizionò la storia cantonale di tutto il XIX secolo: su un asse verticale vi fu la dura contrapposizione fra  potere centrale e poteri locali e sull'asse orizzontale l'opposizione  fra regione e regione, fra Sopra e Sottoceneri, fra centri e periferie. Tutte le vicende cantonali dell'Ottocento possono essere ricondotte a queste contrapposizioni. Ecco qualche esemplificazione significativa: nel 1814 la Leventina chiese l'annessione a Uri per sfuggire - dichiarò - a uno Stato esoso e accentratore che imponeva tasse e leggi complicate che favorivano solo i centri. Qualche anno prima, nel 1811, i deputati sopraccenerini al Gran Consiglio si dichiararono disposti a scambiare il Mendrisiotto con qualche vantaggio commerciale. Per settant'anni Lugano e Bellinzona si accapigliarono per diventare capitale unica del Cantone e  le altre regioni sostenevano  il miglior offerente  perché - dicevano - il primo dovere di un cittadino benpensante è quello di procurare i massimi vantaggi alla Patria, intendendo con ciò la regione di appartenenza. E se nel 1870 non si arrivò allo smembramento del Cantone fu solo grazie alle truppe federali.

Il luganese Giovanni Airoldi nel 1852 distillò l'essenza della storia cantonale: La lotta delle varie unità distrettuali (gli ex-baliaggi) coll'unità dello stato, si può dire sia la storia della piccola nostra repubblic [13].

Per molti decenni, dopo il 1803, il pendolo della storia cantonale oscillò incessantemente fra il radicalismo della modernizzazione e il radicalismo della tradizione senza soluzione di continuità. Fin tanto che la modernizzazione fu vista come negazione della tradizione, e viceversa, lo Stato continuò ad essere considerato un organismo di parte e non al di sopra delle parti, e ciò impedì il consolidamento del sentimento di appartenenza a un territorio comune con interessi comuni. Solo sul finire del secolo si arrivò un punto d'incontro che rese possibile l'integrazione della tradizione nel processo di modernizzazione del paese. Era la definitiva legittimazione dello Stato che portò - come disse un costituzionalista - alla formula dello Stato unitario ma decentralizzato [14].

Andrea Ghiringhelli

Direttore dell'Archivio di Stato

 

[1] Caddeo, Stato politico e morale del Ticino alla vigilia della reazione del 1799, ASSI, 1937, p. 189
[2] L'Elettore ticinese, 19 aprile 1852
[3] Non è bello dover ammettere che i popoli dei baliaggi non si sono emancipati, ma sono stati emancipati. Meglio reinterpretare la storia e mettere in ombra il Bonaparte: ed è interessante constatare che il Ticino, solitamente assai prodigo nell'elargire onorificenze anche a personaggi assai discutibili, al Primo Console ha negato perfino il nome di una viuzza.
[4] v. il rapporto del commissario Luigi Jost, in R.Caddeo, Stato politico e morale del Ticino alla vigilia della reazione del 1799, ASSI, 1937, p. 205
[5] J.Strickler, Actensammlung aus der Zeit der Helvetischen Republick, Bern, 1897, VI, p. 107
[6] L. Delcros, Il Ticino e la Rivoluzione francese, vol. II, Lugano, 1961, p. 118
[7] J. Strickler, op. cit., V, p. 1289
[8] I politologi parlano di sfida di costruzione dello stato e di sfida di costruzione della nazione
[9] Per il primo esempio v. Archivio di Stato, Fondo Dipartimento interni, sc. 17/II, per il secondo Archivio di Stato, Div. 62, G.Sartori al Consiglio di Stato, 11 gennaio 1858
[10] Proclama al Popolo del Cantone Ticino, 26 maggio 1803
[11] Giuseppe Filippo Lepori, La possidenza agraria e la sovranità del popolo, Lugano, 1859, p. 42
[12] S. Franscini, La Svizzera Italiana, Vol. II, Lugano, 1840, p. 292
[13] L'Elettore ticinese, 19 aprile 1852
[14] L. Aureglia, Evolution du droit public du Canton du Tessin dans le sens démocratique, Paris, 1916, p. 331